Motivato da numerose critiche positive mi sono avventurato dentro Highway Rider, nuova fatica jazz classicheggiante di Brad Mehldau. Bella, molto bella davvero. Ricca di spunti, idee, riflessioni, lunghe vie che ti portano altrove... ma in maniera troppo rassicurante.
Avevo già sperimentato questa sua attitudine in The Art of the Trio, Vol. 3: Songs, consigliatami da un folle quanto ottimo commesso del Ricordi di via Orlando, qui a Roma: Mehldau ha un pianismo perfetto che rasenta lo stucchevole, con un voicing molto accurato, quasi studiato, troppo preparato.
Però a volte sembra un pianismo ricalcato, come se si credesse di sentire Bill Evans, senza però quella disperazione che attanagliava il grande pianista davisiano (e magari si potrebbe dire che in certi momenti era Davis ad avere un trombismo evansiano).
Ecco, se dovessi usare una similitudine: con Mehldau viaggi comodo in carrozza, apprezzi il paesaggio, leggi un buon libro, hai una confortevole conversazione, ti riposi dieci minuti, degusti un buon vino bianco barriccato... Keith Jarrett, invece, il paesaggio te lo dipinge, te lo scartavetra contro: ti costringe a fermare il treno col freno d'emergenza, ti obbliga a seguirlo, ti fa vedere strani e nuovi alberi in un bosco che stava sempre sotto il tuo grugno ma di cui ignoravi l'esistenza. Jarrett inventa, codifica, ti perseguita, ti riempie di cose e ti schiaffeggia perché ti sei distratto un microsecondo... Mehldau ti accompagna, dolcemente, con tecnica notevole, con idee rischiosette ma non troppo, con strumentisti eccezionali (il quasi drum'n'bass duo ritmico Matt Chamberlain e Larry Grenadier, il sassofonista Joshua Redman figlio di tanto padre, un produttore sperimentatore come Jon Eternal Sunshine Of The Spotless Mind Brion). Ma niente più.
Da comprare, ma col contagocce.
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