Il primo gioca sul velluto, ed è facile quanto furbo: in fondo, con una sceneggiatura decente, si può raccontare una storia in maniera anche sempliciotta, puntando sulla lacrimetta facile facile.
Il secondo è impegnativo, perché costringe lo spettatore alla fatica: e la fatica, si sa, è l'ultima delle cose da pretendere nel mondo tipicamente passivo del cinema.
Per dire, un film che giocava facile facile era La stanza del figlio di Moretti: in realtà, del personaggio-figlio neanche ci affezioniamo; sparisce subito. Moretti giocava sui sentimenti di genitori veri o potenziali che siamo. Tutto qua.
In questo Pietà, invece, Kim Ki-duk dimostra l'altra parte della medaglia, con una potenza narrativa sconquassante, tipica delle sue arguzia e intelligenza.
Lo spettatore deve seguire la storia per quella che è, deve sentirsi sollecitato da simbolismi anche lontani dal mondo occidentale (anche se il flano ci ricorda troppe "cose nostre"), deve seguire la trama anche se ricca di funambolici simbolismi. Il pubblico, insomma, è la terza parte del rapporto che vediamo consumarsi - o crescere - tra i due protagonisti.
Un altro elemento veramente spettacolare è che il regista lavora molto sull'accennato: mentre, cioè, provate a raccontare la trama, vi renderete immediatamente conto che in realtà state dicendo cose che presumibilmente sono accadute, ma che il regista ha solo accennato, alluso, fatto intendere o capire.
Il paradosso è che siete più voi come spettatori ad aggiungere situazioni cupe e turpi, piuttosto che il veduto della pellicola. Un'altissima lezione di regia e sceneggiatura, che i nostri autoreferenziali e pomposi registi dovrebbero imparare.
Un film che andrebbe visto con animo sereno e ben disposto. Alla fine, quando uscirete dalla sala, dovrete essere pronti a rispondere a voi stessi alla domanda che mi sono posto io quasi autoprovocandomi: ma chi è che ha pietà, e di chi? La vostra risposta vi disarmerà, così com'è accaduto a me.
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