03 ottobre 2012

Open, quando Agassi si chiude

Adoro il tennis. Lo preferisco di gran lunga al calcio. È secondo solo alla mia passione per la pallavolo. Questi sport così solitari, così lontani dall'agone dei tifosi, così strategici; dove non puoi mai permetterti distrazione alcuna, e mai puoi rilassarti.
Il mio tennista preferito è sempre stato Jimmy Connors. Arrogante con i colleghi, ma straordinariamente elegante e spettacolare in campo. Di Lendl non ho mai sopportato quel suo essere così algido. Eppoi, inaugurò un modo di fare tennis decisamente noioso. Però adoravo le sue maglie: quando la Rai era ancora la Rai, mi segnavo immediatamente il modello della polo che sfoggiava, per farmelo regalare alla prima occasione.
In tutto questo, no, non ho mai giocato una sola partita di tennis. Mai... oddio, no: una volta giocai per divertimento contro un tipo, vincendo 6-0. Giuro: non avevo mai impugnato una racchetta. Eppure, a furia di vedere gli altri giocare, era come se avessi assimilato trucchi e stile. O magari il tipo mi aveva semplicemente sottovalutato.
Al di là di questo, ricordo ancora oggi come conobbi Agassi (di origine iraniana, anche se "Bisteccone" Galeazzi si ostinava a chiamarlo alla francese, Agassì): capelli in stile A Flock of Seagulls, short a foggia di jeans, e un viso adolescenziale sempre sorridente e un po' guascone... di quel guascone, però, cui vuoi bene.
Mi piaceva la sua energia, la sua forza, il suo entusiasmo, e le sue debolezze. Ma non quelle debolezze latine, puzzolenti di tinello, di fritto, di mammismo, di rassegnazione... erano - e sono - debolezze umane, che in tempi e modi diversi potremmo vivere tutti. È l'attitudine che mi colpiva: Agassi sembrava accettare le cose, e pensare a come risolverle o accettarle. Immediatamente. Tutto nell'arco di frazioni di secondo. Purtroppo non ho potuto seguire tutta la sua carriera, perché poi ho seguito sempre meno il tennis. Però averlo ritrovato con questo libro, mi fa piacere: è un po' come riconoscere tra la folla un vecchio amico, scambiare un'occhiata complice, e poi lasciarlo al suo destino.
Incredibile ma vero: il suo Open è un ottimo libro. Scritto bene, curato bene, con i tempi giusti e soprattutto un ritmo e una sorta di suspance che non ti lasciano mai. Già, suspance: ogni descrizione delle sue partite è così reale, che ti auguri sempre che le sue sconfitte diventino vittorie, che i suoi momenti di sconforto si tramutino in sorrisi... 
Purtroppo i critici e la sovraccoperta puntano troppo sul suo affermare con risolutezza un odio quasi totale per il tennis. Io preferisco proporvi questo momento narrativo, che coincide con il giorno in cui scelse di indossare i leggendari short in jeans e la capigliatura decisamente originale.

Dicono che cerco di cambiare il tennis. In realtà sto tentando di evitare che il tennis cambi me. Mi definiscono un ribelle, ma non ci tengo ad essere un ribelle, sto solo cercando di portare avanti una normale, quotidiana ribellione adolescenziale. Distinzioni sottili, ma importanti. In sostanza, non faccio altro che essere me stesso e poiché non so chi sono, i miei tentativi di scoprirlo sono maldestri e fatti a casaccio - e, ovviamente, contraddittori.
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Resistere all'autorità, fare esperimenti con la mia identità, mandare un messaggio a mio padre, agitarmi contro la mancanza di scelta della mia vita. Ma lo faccio su un palcoscenico più vasto.
Qualunque cosa io faccia, quali che siano le mie motivazioni, ha un'eco.
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Non riesco a immaginare che tutta questa gente voglia assomigliare ad Andre Agassi, dal momento che io non voglio essere Andre Agassi.
Ogni tanto provo a spiegarlo in un'intervista, ma non mi viene mai bene. Se io per primo non sono in grado di capire le mie motivazioni e i miei demoni, come posso sperare di spiegarli ai giornalisti?
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Se avessi tempo, e una maggiore autocoscienza, direi ai giornalisti che sto cercando di capire chi sono, ma intanto ho un'idea abbastanza precisa di chi non sono. Non sono ciò che indosso. Di certo non sono il mio gioco.
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E, per l'amoro di dio, non sono un punk. Amo il pop soft, dozzinale, tipo Barry Manilow e Richard Marx.

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