Che poi era elegante anche in "borghese", con quelle scarpe sempre lucide e indossate con finta noncuranza, dove però sapevi che anche quella macchiolina che intravedevi se l'era procurata apposta di nascosto da tutti perché anche le insidie della giornata dovevano essere eleganti. Scarpe così grandi che se ci mettevi quattro ruote e un volante ti ci potevi sedere agilmente e guidare intorno all'isolato.
Sapeva tutto, dico tutto, sulla lirica. Aveva una quantità di edizioni diverse di ogni singola opera che veramente c'era da chiedersi se riuscisse a distinguerle tutte... e però se lo sottoponevi a un provocatorio blindfold test ti diceva che la registrazione era di quell'anno, magari sovraincisa in quel punto lì, che il direttore aveva mutande a pois e che la prima violinista era la cugina del cognato di chissà chi.
Una volta, per dire, siamo andati insieme a Santa Cecilia per ascoltare tutti i Brandeburghesi di Bach, e - giuro! - aveva lo spartito con sé: ha inseguito Peter Schreier tutto il tempo, incazzandosi se in qualche punto sbagliava tempo o pausa. Io, che adoro Bach e stra-adoro i Brandeburghesi, cercavo di seguirlo nelle sue analisi dotte, restando interdetto da come non lasciava affiorare sorriso alcuno: in quel momento era il critico, e tale doveva essere la sua aura. Eppure, sotto sotto, si percepiva un dolcissimo sorrisetto sardonico in cui capivi che sapeva perfettamente di atteggiarsi un po' da cazzaro.
Adorabile, non era adorabile, ma vederlo smontare il mondo degli altri per ricondurlo al suo e per poi restituirtelo riconfigurato... be', era uno spasso. Certo, come tutti i gay colti e raffinati tendeva all'egolalia, all'autoreferenzialità: ma le sue lectio brevis di medicina o di savoir faire o di biografie di personaggi noti, erano uno spasso. E comunque non "scheccheggiava", come invece odiava vedere negli altri.
Sapeva gustare le buone cose, e cucinava da dio. Sui telefilm ci trovavamo d'accordo, un po' meno sui film. Però andare al cinema con lui era sempre un rischio divertente: mentre suo marito si appisolava in due-minuti-due, lui dispensava "SILENZIO!" a tutto spiano, regalando pure qualche buffetto ai minorenni impertinenti.
Aveva una voce cavernosa ma con un leggero velluto di fondo. Aveva uno sguardo in cui si intravedeva qualche languido dolore represso ma difficile da nascondere. Dolce, sapeva essere dolce. Fiero, era molto fiero. Timido, ma propenso a un modo di comunicare che comunque avvolgeva, a volte troppo ma chissenefregava.
Ci si vedeva poco ormai. E poi era andato a vivere a Milano, con marito e cagnone.
Mi mancavano quelle cene dal giapponese di turno, dove lui e mia moglie straparlavano e si beccavano amorevolmente, e io e suo marito restavamo quasi muti.
Mi mancavano. Ma sapevo che c'era, e ogni tanto andavo su whatsapp a vedere quel suo faccione pieno di cose.
Càpita che ci si perda, lo so. Ma è bello sapere che certe persone ci sono, sono vive, che le puoi raggiungere quando vuoi, e che magari quando stai sotto casa loro, proprio quel giorno ti girano le palle e non vuoi vederle. Ma ci sono. E ci saranno sempre. Almeno finché...
... finché pochi giorni fa, in una strada berlinese, Michele è morto. Per un infarto. Era solo. Senza suo marito accanto. Senza mia moglie accanto. Senza me accanto a seguire quella manona che dirigeva Bach. Aveva poco più di 40 anni.
Ciao Mik, mi mancherai.
Nessun commento:
Posta un commento