09 gennaio 2018

Umbria Jazz Winter #UJW25, poche luci, molte ombre (con affetto)

È ormai la sesta edizione che mi vede tra i fedeli spettatori della versione invernale di Umbria Jazz Winter
Rispetto a quella estiva - più famosa e più antica - soffre di almeno due limiti oggettivi: il periodo, notoriamente breve e forzatamente dedicato ai propri affetti; la collocazione, tutt'altro che agevole, penalizzata peraltro da un'accoglienza limitata e limitante.
In più, non passa anno in cui non si parli di difficoltà economiche, nonostante poi successivamente vengano sempre vantati dei sold-out pressoché totali (anche se io ho l'impressione che siano mischiati turisti occasionali con gli spettatori veri e propri).
Certo, il cartellone sembra soffrire sempre più di qualità, ma all'apparenza: al di là dei gusti, e delle performance, infatti, i nomi di grido e quelli di nicchia non sono mancati.
Però quest'anno troppe performance hanno lasciato a desiderare. 
Quelle al Teatro Mancinelli, poi, hanno tutte sofferto anche di un mixer tutt'altro che professionale: musica impastata, strumenti primari quasi inascoltabili, equalizzazione delle percussioni non all'altezza del blasone.
Ma procediamo con ordine.
Il duo Danilo Rea e Gino Paoli non ha mai avuto nulla a che vedere con il jazz. Attenzione, non sto parlando di una mia personale idea di jazz: da sempre, Rea e Paoli fanno i gigioni, alla ricerca dell'applauso facile e di un pubblico più poppeggiante che jazzistico
Per carità, non ci sta niente di male, anzi. Però - qui a Orvieto - da Danilo Rea mi aspettavo più rispetto per la sua figura. Poche note, ma giuste, diamine! 
E, invece, ha vorticosamente girato le fettuccine sui tasti bianconeri, sciorinando quei quattro soliti e prevedibili trick che vent'anni fa erano innovativi, ma che oggi sanno solo di stanca ripetizione di se stessi. Lo accetto da Allevi, ma non da Danilo Rea. 
Si è salvato giusto Flavio Boltro, guest in un paio di pezzi, sempre capace di prendere affettuosamente per i fondelli la sua tromba, limitata ma audace e sorniona.
Jason Moran ha proposto un Monk inutile, cerebrale e borioso, quale invece non era il grandissimo pianista. Troppi intellettualismi stucchevoli e appiccicati, accompagnati peraltro da una sorta di installazione risicata e ripetuta più volte, che se soffrivi di epilessia rischiavi veramente brutto.
Marc Ribot ha fatto un casino con un suo modo molto arrogante di raccontare l'armolodia di Coleman, penalizzando i già timidi Young Philadelphians con un uso strafottente e ostinato del wha wha, per oltre un'ora di bordello sonoro; tanto che tre quarti di Teatro è scappato via a gambe levate dopo soli dieci minuti di fracasso. 

Da chi ha nobilitato David Sylvian, Tom Waits e Vinicio Capossela, mi aspettavo più rispetto per se stesso, per il pubblico e anche per i giovani musicisti coinvolti.
Il Merry Christmas Quartet di Fabrizio Bosso ha fatto la sua striminzita performance con l'aiuto di una voce senza mantice ed estensione (quella di Walter Ricci). Scaletta già dimenticata per un live veramente deludente. Certo, Bosso è dio, Mazzariello è il suo profeta, ma la scelta dei brani è stata micidiale.
Sul trio Guidi, Bearzatti, Rabbia non riesco a pronunciarmi più di tanto. Il pianismo di Guidi è acquoso di suo, contrapposto al batterismo di Rabbia decisamente più professionale. Quando entravano nel jazz mainstream riuscivano bene (troppo ECM, va detto); ma quando hanno abbozzato un free jazz di maniera, mi è venuta voglia di scappare.
Si sono salvati: la bella lettura di Joni Mitchell da parte di di De Vito, Pietropaoli e Mazzariello e la brava e promettente Jazzmeia Horn (teniamola d'occhio!). 
Però è stato troppo poco.
Oltretutto gli organizzatori insistono nel dire che quello invernale è sempre stato un Umbria Jazz per "addetti ai lavori". Cosa diamine voglia dire, è un mistero. Resta il fatto che anche e solo l'elenco dei nomi presentati dimostra una volontà di essere invece eterogenei e curiosi.
La vera domanda da porsi, invece, è un'altra: come mai il livello è stato complessivamente così basso?
A parte le due benvenute eccezioni, perché la qualità di Umbria Jazz 25 è stato così bassa e precaria?
Non ho la risposta, ovviamente; anche se temo che la visione dei due estremi (Rea da una parte e Moran dall'altra) lasci intravedere un'italica volontà di mantenere separati due mondi (jazz banana e jazz colto) che nel significato stesso del jazz non dovrebbero nemmeno essere ipotizzati.

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