Per comprendere se un film mi stia piacendo, verifico mentalmente la mia postura sulla poltrona; di casa o del cinema, poco importa: se sto sulle punte dei piedi, seduto in pizzo e aggrottato, il film funziona, quale che sia il suo genere - anche quelli della Marvel, intendiamoci. Tant'è che per me vedere film che mi piacciono è anche uno sforzo fisico, visto che a proiezione conclusa ho mal di schiena e dolori ai piedi.
Fatto sta che appena vidi Funny Games, mi ritrovai dolente in ogni parte del corpo, ma soprattutto con l'anima a pezzi e la coscienza colma di dubbi. E mi resi immediatamente conto come fosse possibile devastare la coscienza dello spettatore senza far vedere nulla: tranne la scena (volutamente ridondante) della fucilata contro uno dei due delinquenti - poi volutamente riavvolta, il resto del film è un continuo gioco di allusioni.
Sapete qual è la cosa che più mi ha stregato? La pallina che rotola verso lo spettatore, partendo da una porta socchiusa e in penombra: c'è stato un omicidio efferato, ma ti arriva prima dentro, nell'anima, e solo dopo nella pancia e nel cuore.
Haneke è un regista asciutto, molto asciutto. Netto, nitido, senza pregiudizi e senza moralismi d'accatto. Lui racconta, e sa raccontare; è lo spettatore il vero arbitro della vicenda. E quasi sempre ne esce distrutto, pieno di dubbi e di incertezze... il che, onestamente, è la via migliore per crescere, sia come spettatori che come persone.
Basta guardare Il tempo dei lupi, dove gli eventi si susseguono spontaneamente e inevitabilmente, quasi fossero scritti in diretta dagli stessi attori. Dove il Male e il male dell'essere umano convivono amabilmente.
Basta inseguire La pianista, così nevrotica ma algida, piena solo di se stessa e delle sue poliritmiche schizofrenie.
Basta arrampicarsi dentro la storia di Niente da nascondere, dove le inquadrature sembrano lunghe e statiche; e invece stanno dimostrando angoscia e ipocrisia.
Non ho mai amato Amour, mentre trovo Il nastro bianco la massima espressione della poetica di Haneke, dove il tempo sembra scorrere indifferente, mentre invece il dramma della pedofilia e quello del nazismo sono lì, vividi spettatori accanto a noi.
In questa ottima e corposa intervista, Haneke non è mai pieno di sé: sa raccontare la sua "professione" di regista e autore con grazia e cortesia, senza mai perdersi in voluttà autoreferenziali, senza compiacere gli intervistati, senza imporre dogmatismi di sorta, senza credere di essere al centro del Mondo e/o del Cinema.
Le domande sono sempre puntuali e accurate, precise e ricche di una competenza che poteva essere solo di due ottimi critici francesi.
Va detto che nell'edizione italiana il riassunto della trama dei Lupi dimentica di parlare dello stupro della minorenne; violenza che si intravede a malapena, ma che è il nodo narrativo per il drammatico epilogo finale. Scelta o svista editoriale che sia, poco importa: andrebbe corretta.
Consiglio la lettura di questo libro anche ai neofiti, a quelli che masticano la settima arte da pochi anni, perché non c'è niente di meglio che studiare questa meraviglia così giovane ma già in via di estinzione quale solo sa essere il cinema.
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