02 dicembre 2019

dove porta PARASITE?

Nella lussuosa Sud Corea, una famiglia di quattro poveracci vive in estrema indigenza dentro un pulcioso seminterrato; in tempi e modi diversi, riescono a farsi assumere da un supericcone, senza fargli capire che sono parenti. Però la supervillona dove lavoreranno nasconde un segreto che stravolgerà la vita di tutti i protagonisti... ma non quella dello spettatore, purtroppo. 
Nell'arco dei primi venti minuti, infatti, la disposizione della trama perde tutte le sue potenziali opportunità: non è una commedia, non è un drammone post neorealista, non è un film di denuncia, non è un film allegorico, né tantomeno è un ibrido di questi quattro generi. Il film, insomma, va avanti a vele sciolte, in balìa di momenti casuali o di canovacci di fortuna. Il vero colpo di scena sarebbe all'ultimissimo minuto, ma non salva dalla stiracchiata sufficienza un film che addirittura parteciperà alla finale dell'Oscar come miglior film straniero.
I personaggi, poi, fanno enorme fatica a generare empatia; non parlo di recitazione (decisamente latitante), ma proprio delle figure che dovrebbero rappresentare, e che non si riescono a percepire in alcun modo. Salverei giusto qualche momento del padre, ma soprattutto la meravigliosa e purtroppo breve sequenza (l'unica da incorniciare) in cui la sorella, durante l'alluvione che inonda il seminterrato, per fermare il liquame che esce dalle fogne, si siede sulla tavolozza del water come se non stesse accadendo nulla, navigando con lo smartphone e fumando una sigaretta lercia e mefitica. 
E che dire del segreto della cantina? Sarebbe stato un perfetto macguffin (avete presente la valigia di Pulp Fiction?); di quelli che al momento giusto avrebbero lasciato l'amaro in bocca, un po' come l'amara conclusione di Train de vie. E, invece, sfocia nel grottesco, per cadere pesantemente nel sommesso grand guignol conclusivo.
L'epilogo post dramma offre spunti molto interessanti, anche se forse avrebbe funzionato più dalle vesti della sorella piuttosto che da quelle insipide del fratello. 
E proprio quando il rischio del doppio finale è in agguato, il regista riesce a chiudere con un minuscolo colpo di scena azzeccato e amarissimo (finalmente!).
Bong Joon-ho non è nuovo a film allegorici: The Host Snowpiercer 
avevano struttura e solido passo narrativo; potevano non piacere (e, infatti, a me non sono piaciuti), ma reggevano al trascorrere degli eventi. 
Qui, invece, siamo di fronte a un film irrisolto, forse penalizzato anche da un doppiaggio senza sfumature e a volte inutilmente gridato. O forse il regista stesso ha sentito di più le basi della trama, considerato che si nutre anche di realtà, sicuramente più dei due sopra citati.
Potremmo aprire un noioso (e quindi breve) dibattito, indicando due problemi a monte di film come questo.
Il primo è l'annosa ammorberia della critica militante, che ancora oggi si ostina a decidere cosa deve piacere e cosa no. Parasite ne esce sopravvalutato e irritante. Anzi: più irritante di quanto non lo sia in realtà.
Il secondo problema riguarda chi, come il sottoscritto, studia cinema da sempre (per inciso, sono della classe '66). Ne ho visto tanto, studiato tantissimo, letto ancor di più. Evidentemente, anche il cinema è fatto di cicli: se io ho un vago sentore di "già visto" o di debolezza narrativa, devo anche sacrificare la mia esperienza supponente, ricordandomi che un ventenne di oggi può non aver visto le migliaia di titoli che hanno condizionato la mia critica, "accontentandosi" quindi di un film come Parasite, oggettivamente debole e vacuo, ma contestualmente difensore di un certo cinema di qualità che ormai ha poco ossigeno a disposizione.

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