Un po' per fortuna e un (bel) po' per le proposte, questa è stata un'edizione di Umbria Jazz Winter sopra le aspettative. E dico questo, ricordando anche che a giugno neanche si era certi che sarebbe andata in porto.
Va detto che i primi vagiti sono stati leggermente grigi. Con il suo interessante omaggio a Mina, infatti, Danilo Rea (e il suo trio) ha dato sfoggio della sua canonica bravura, che però... è sempre la stessa da almeno quindici anni: troppo prevedibile, ormai; è gradita un po' di sperimentazione, o almeno un deciso svecchiamento.
Chi, invece, non ha funzionato è Gil Goldstein: la sua glicemica lettura dei Beatles ha annoiato e poco più; Orchestra costantemente fuori tono, il raffinato batterismo di Lewis Nash relegato a uno scolastico zum-pa-pa, la iconica chitarra di John Scofield ridotta a mere esecuzioni di melodie sempliciotte (tranne in due purtroppo-rapidi momenti in cui ha sciorinato due splendidi assolo spaccapietre).
Il giorno successivo, il dio del jazz ha deciso di emendare al suddetto inciampo con un meraviglioso duo di pianoforte e... tap-dancer.
Lui è Sullivan Fortner: raffinato, elegante, preciso, pulito, con una mano sinistra tecnicamente ineccepibile. Lei è Michela Marino Lerman: il tempo di salire sorridente sulla pedana che subito delizia pubblico e musica con un sapido tap-dancing, irriverente al punto giusto, sempre dentro le note e il ritmo del pianoforte, ricca di inventiva e di coraggio. Applausi a scena aperta, meritati e spontanei.
La giornata si è conclusa alla grande. Prima, infatti, sono saliti sul palco Joel Ross e Warren Wolf, per un vibrafonico omaggio a Milt Jackson e Bobby Hutcherson, cui in un paio di occasioni si è inserito il tap-dancing della Lerman. Un'ora di rimandi al Modern Jazz Quartet, a Monk, a John Lewis, a quel jazz così eterno che si fa fatica a pensare a quanto tempo fa sia stato composto.
Nel secondo set, il Devil Quartet di Paolo Fresu ha sparato il suo repertorio più "elettrico", regalando intensità e grazia senza confini. Fresu è sceso dal suo ego, dimostrandosi umile e voglioso di condividere e confrontarsi con la sua band.
Ospite Francesco Diodati, che meriterebbe un post a parte per quanto mi abbia sorpreso positivamente: ha un rapporto fisico con la chitarra che raramente ho visto nella mia lunga vita di appassionato musicale. La demolisce e ricostruisce con una sapienza e una follia ben miscelati. Non c'è una nota ovvia che sia una, neanche quelle di mero supporto. Ogni suo assolo ricorda certe maestrie degli appassionati di parkour: si butta dentro al rischio, costi quello che costi, senza pensare minimamente a cosa accadrà dopo, perché quel dopo sarà un altro rischio, un altro esperimento.
Terzo giorno, appuntamento con la versione "acustica" del suddetto Devil Quartet, con una guest star cui voglio un bene dell'anima: Gianluca Petrella. Il suo trombone e il flicorno di Fresu hanno regalato quasi due ore di concerto, piene di umanità, di dolcezza, anche di furia, ma sempre insieme-e-accanto al pubblico. Empatia così presente e tangibile che durante i bis i due sono scesi dal palco, improvvisando tra noi spettatori, infantilmente inebetiti.
Quarto giorno aperto dal duo Antonello Salis (pianoforte e fisarmonica) e Simone Zanchini (fisarmonica). Ho finito gli aggettivi positivi: posso solo dire che è stato l'omaggio a Morricone più devoto e nel contempo irriverente cui abbia mai assistito. Sperimentazione e tradizione sapientemente miscelate dentro un concerto bellissimo, di quelli che andrebbero tradotti in leggenda. Gli organizzatori insistono col dire che questo è stato il festival del vibrafono... suvvia, dopo questo set dovreste ricredervi.
Gran finale insieme ai MAT: Marcello Allulli (sensibile sassofonista e titolare del trio originario), Ermanno Baron (batterista asciutto e puntuale) e Francesco Diodati (la chitarra di cui vi ho parlato prima). Il loro repertorio è una sfida intellettuale e artistica continua, che accarezza con eguale intensità il cuore e la ragione dello spettatore.
Bis molto potente con l'aggiunta di Enrico Zanisi, Antonello Salis e Paolo Fresu. Insieme hanno eseguito il quasi-canone Hermanos, dolce composizione del sassofonista, il cui crescendum finale ha saldato in una sola entità l'intero sestetto: un pathos morbido e caldo che difficilmente dimenticherò.
Insomma, una signora edizione, nonostante le mille difficoltà.
Difficoltà che restano ancora ben visibili, considerato che né nel sito né nella guida sono ancora indicate le date della prossima edizione invernale.
Speriamo bene.
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