20 marzo 2020

Pat Metheny presenta FROM THIS PLACE

From This Place è un piccolo capolavoro, uno di quei dischi che funzioneranno anche a distanza di anni. Non c'è una sbavatura o un tentennamento. È vero che suona come "un disco di Pat Metheny", ma è anche vero che c'è molta roba viva, interessante, che va al di là dell'ovvio.
Musica Jazz parla di conceptal contrario di certi concept, però, questo gioiello non è impastato, non sente il peso di un fil rouge più o meno dissimulato. Più che altro, è concept per come è stato composto: in maniera lineare, in un alto momento di ispirata illuminazione.
Sempre nell'intervista a Musica Jazz, Metheny sottolinea come le parti con gli archi siano state arrangiate successivamente a una prima registrazione per solo quartetto; il bello è che non si sente. Non si sente, cioè, quell'aggiuntinismo cui spesso indugiano le opere che contengono degli archi in postproduzione. 
Ogni nota, ogni strumento, sono perfettamente incastonati dentro una sfera, ma anche distinti e distanti tra loro, con eguale dignità ed identica forza narrativa.
Il primo brano, American Undefined, funge quasi da ponte con la precedente produzione più illuminata. Sotto molti aspetti armonici ricorda certe cose di American Garage, ma con il conforto di non so quanti lustri di esperienza in più sulle spalle; esperienza che ha fatto più che bene.
Segue Wide and Far, dove la leggerissima penna di Metheny si mette al servizio del pianismo di Gwilym Simcock e di Antonio Sanchez, che accarezza l'ascoltatore con un multiritmico drumming di rara leggerezza. Nota a parte per il basso di Linda May Han Oh: in men che non si dica, l'ascoltatore finisce il repertorio dei complimenti. 
Arriviamo a You Are, che resta forse la perla pregiata di quest'opera: un canone aperto da un piano, cui rispondono gli altri strumenti con dolcezza e dolore e imponenza e silenzi e pieni e suoni. Veramente, non c'è scampo alla bellezza di questo brano. 
Same River arriva come un ruscello di acqua fresca che ci disseta dopo il disarmante ascolto precedente. Qui il lavoro dell'orchestra è fondamentale: molto americano, con un arrangiamento vicino a certe aperture del Metheny di Sacred Story. Qui Simcock insegue Scott Cossu con un certo gusto per l'essenzialità. 
Pathmaker sembra un gioco quasi spagnoleggiante di Chick Corea. Piano e chitarra introducono amabilmente un tema in crescendum, per poi delegare all'orchestra e a Sanchez il ruolo di tappeto sonoro sul quale Metheny cerca ostinatamente il cristallo perfetto. Dopodiché torna Simcock che non lascia proprio spazio alla banalità. Una delizia. 
The Past In Us sembra porsi molte domande, come se le note così dolci e dolenti volessero chiedere qualcosa all'ascoltatore. Vero è che forse è la meno riuscita tra tutte le composizioni, ma forse perché io non amo molto l'armonica, e quella di Gregoire Maret fa il suo dovere ma nulla più. 
Everything Explained è chiaramente più che un omaggio a un certo flamenco contaminato. Nonostante la struttura molto intuitiva, è un brano splendido: Metheny regala momenti a metà tra il rigore stilistico e la follia tecnica. 
Altra perla indimenticabile è il brano che dà il titolo all'album: From Ths Place. Ad un ascolto ripetuto, mi ha ricordato il main title di Band Of Brothers, la serie di Spielberg in sei parti sulla Compagnia E. Ma è solo una mia impressione. Certo è che la voce di Meshell Ndegeocello è avvolgente, sofisticata, strabiliante. Un brano da conservare nel cuore. 
Segue quindi Sixty-Six, che sembra partire male con quel ritmo rubato a Last Train Home. In realtà è un trampolino per regalare momenti quasi perfetti. Il contrabbasso di Linda May Han Oh si conferma tra i più interessanti del panorama musicale di questi anni. E si sente, perché sia Metheny che Sanchez si muovono con fiducia e agilità, senza pensarci due volte. 
Finiamo con Love May Take Awhile, che ci porta via, insieme a Hemingway, McCarthy, Roth, nell'assoluta e timorosa reverenza per il tornado che sovrasta la copertina.


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