Le otto trame di 30' l'uno derivano dalla rubrica settimanale di lungo corso del New York Times.
L'intera serie è disponibile su Amazon Prime, con la consigliata opportunità di vederla in lingua originale.
Regia e location sono chiaramente debitrici della Manhattan di Woody Allen, o comunque di una New York "amica" e sorniona che siamo abituati a (ri)conoscere nei numerosi film/fiction che ci circondano da lustri.
Le scelte musicali sono in linea con le trame, anche con una ricercatezza per autori prelibati o comunque di nicchia (riconoscerete una cover della Kooks di David Bowie, e non solo).
Le scelte musicali sono in linea con le trame, anche con una ricercatezza per autori prelibati o comunque di nicchia (riconoscerete una cover della Kooks di David Bowie, e non solo).
Ma sono gli attori che fanno veramente la differenza.
Nel primo episodio, tra la protagonista e il portiere c'è una gara di bravura che indiscutibilmente vince quest'ultimo.
Nel secondo, vince più la trama, perché sia la Keener che Patel giocando con quella manierata sottrazione che a me piace moltissimo: meno ti agiti e meglio è. E la storia scivola via senza intoppi. A latere: Andy Garcia è invecchiato male, ma tira fuori un cameo da lucciconi.
Nel terzo episodio Anne Hathaway si dimostra monumentale. Veramente di insospettabile bravura. Già la trama di sé è dolorosa, ma lei riesce nella difficilissima impresa di commuovere senza farsi compatire. L'ho rivalutata, e di moltissimo.
Nel quarto episodio, i due bravissimi Tina Fey e John Slattery hanno a disposizione una storia esile esile. Onestamente, l'ho trovata molto debole. Secondo me, il finale ammicca al finale di Blow Up, ma è una speculazione che non riesco a condividere con nessuno. Il che forse vuol dire che avrei esagerato col pipponismo mentale.
Nel quinto episodio, troviamo un sodale di Patel da Newsroom, John Gallagher Jr., cui viene spontaneo volere bene, ma che ancora sembra non credere alle sue capacità attoriali (oppure è limitato, e allora buonanotte). Sorprende, semmai, lei: Sofia Boutella. Quelle sopracciglione alla Frida Kahlo, quel corpicino esile esile, quella scucchiona che non finisce più: riesce difficile seguirne l'evoluzione recitativa, finché non si toglie un po' di componenti e si mette gli occhiali. Progressione estetica che marcia in parallelo con la maturazione del personaggio. Episodio piripicchioso ma non sdolcinato.
Nel sesto episodio, scopriamo un lato inedito di Shea Whigham: sa recitare e lo fa molto bene, con spessore e gamme notevoli. La trama è delicata e borderline, e lui riesce a non essere mai volgare o fuori registro.
Settimo episodio, un po' prevedibile e di maniera, salvato dalla scena finale che ti fa venire un sorrisetto da ebete che non si spegne più.
Ottavo episodio che non può essere raccontato: lo capirete quando e se lo vedrete.
Se gli autori e i produttori potessero capire uno straccio di italiano, fategli presente che si devono fermare qui: la serie è bella, ben fatta e godibile; ma non va assolutamente prodotta una seconda stagione, altrimenti diventa stucchevole.
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