11 settembre 2020

AWAY su Netflix, ovvero: dell'inclusione obbligata

Ho visto Away su Netflix e non l'ho trovata un granché. Definirla una serie di fantascienza, poi, mi sembra una forzatura quasi ridicola. Certo, parla della prima missione su Marte, ha dei (rarissimi) momenti godibili extraveicolari, alcune soluzioni scientifiche dichiaratamente improbabili se non impossibili... però, e alla fine, insegue una trama prevedibile e scontata che sarebbe identica a se stessa anche al di fuori di questo contesto.
Devo dire che gli effetti speciali sono notevoli, puliti, così frequenti e lineari che lo spettatore quasi non si accorge che per un quinto di ogni episodio i personaggi fluttuano amabilmente nel cargo spaziale o fuori. Cargo spaziale che sembra più grande di San Pietro, con un'abitabilità e un rispetto della privacy che neanche un principe giapponese poteva vantare. Però la finzione prevede queste cose, che certo non danno fastidio.
Dà fastidio, semmai, la scelta della bibbia dei personaggi, che oscilla sempre tra l'inclusione parossistica e un dissimulato rispetto per l'ipocrita tradizione in salsa luterana. 
Certo, anche nelle serie del passato erano presenti alcune scelte coraggiose (dentro Star Trek, per esempio, abbiamo il primo bacio televisivo interraziale, un equipaggio multietnico, la prima donna comandante...), ma qui, dentro Away, sembra quasi che ci sia un ditone nascosto che indica ogni scelta per enfatizzarla in maniera quasi nevrotica, per accontentare ogni palato pronto a giudicare col ditino nella fondina.
Parentesi. Per evitare polemiche della solita attivista di passaggio: non sto contestando queste scelte, semmai la forzatura e ormai l'obbligo di dover rappresentare tutte, tutti e tutto, costringendo l'ingegno degli sceneggiatori a delle vere capriole narrative per eludere ogni polemica, a discapito della fluidità delle storie e anche - diciamolo - dell'inventiva. 
La comandantessa è donna, madre, moglie, scapigliata da giovane, integerrima da adulta. E questo è l'obbligo post MeToo. La parte luterana? Ebbene, passa il 90 per cento della sua attività a piangere e a ringraziare il marito per averla supportata.
Il marito della comandantessa, invece, è il suo faro etico e professionale, ma come dispetto del Fato ha una patologia congenita che lo costringe pressoché immediatamente alla sedia a rotelle. Quindi il "normale" diventa "handicappato", accettandone i contro con raro senso della dignità. La figlia dei due scopre l'adolescenza e l'amore proprio quando mamma sta in giro per lo Spazio, e il papà ne accetterà i colpi di testa con enorme fatica, ma sempre con un deciso puntiglio etico. Oltretutto, l'uomo è così d'un pezzo che fugge dal tentativo di corteggiamento della migliore amica della comandantessa.
La figlia dei due sta sempre legata alle amichette - com'è giusto che sia - e ai like dei social (in maniera accennata). Scopre l'amore (casto ma fino ad una notte in cui forse accade qualcosa), ma segue sempre i consigli di mammà-dallo-Spazio, almeno finché mammà-dallo-Spazio non sbrocca per una temporanea disidratazione, dandole qualche rigida direttiva di troppo. Avrà quindi un incidente di moto, il cui scampato pericolo la rimette - luteraniamente - dentro la carreggiata del vivere secondo l'etica quasi aperta dei genitori. A latere: al contrario di quanto suggerirebbe la genetica da salotto, non ha la patologia di papà.

Tale figlia si innamora di un ragazzetto - orfano di padre e di origine ispanica - che la porterebbe alla adultità, almeno finché non cede alle sue insistenze portandola ad avere l'incidente. Tanto poi si presenterà umilmente prostrato (in cravatta!) davanti al padre, una volta concluso l'iter dell'essere stato cacciato via a causa dell'incidente.
La figlia della migliore amica della comandantessa ha la Sindrome di Down. Per carità, non è la prima volta che viene "usata" tale figura; ma qui viene fuori il ditone cui alludevo prima, visto che in questo caso è un personaggio totalmente marginale, poco usato e poco valorizzato. Anzi, sotto sotto è innocentemente responsabile della rinuncia della mamma a diventare astronauta. Il luteranismo si fa sempre sentire: o fai la donna emancipata (ma frignona e debitrice di tuo marito) oppure fai la mamma.
E l'equipaggio?
Qui si scatena di tutto.

La prima persona che metterà piede su Marte è cinese, donna, madre, ma anche innamorata di un'altra donna (con cui, però, non ha consumato nulla).
Il biologo è nero, adottato, ebreo, religioso, passa il tempo a pregare, tanto che alla fine pregano tutti, anche il russo scettico.
Il russo è il più cinico tra tutti, ma dal suo passato scende una storia niente male: nonostante ardite promesse, dopo la morte della moglie abbandonò l'amatissima figlia ai suoi zii. E ovviamente la figlia non gliel'ha mai perdonato. Pagherà abbandono e altezzosità diventando cieco.
Il comandante in seconda è un indiano uscito da qualche slum non meglio identificato. Si atteggia da playboy, ma in realtà preferisce la solitudine. Ama, non corrisposto, la comandantessa.

Oddio, non corrisposto fino ad un certo punto: quando tutti e cinque devono salutare i cari prima di atterrare su Marte... di ammartare, insomma, è l'unico che non ha nessuno da salutare se non il fratello morto in gioventù. E mentre saluta il suo spirito, la comandantessa lo prende per mano... in mondovisione! Controcampo sul marito a Terra che deglutisce a fatica.
Mi rendo conto che la trama riportata possa nascondere le contraddizioni dei personaggi inclusivi, ma se gli sceneggiatori se ne fossero fregati di mettere tutto dentro, forse avremmo avuto un altro tipo di narrazione, o comunque non mi sarei messo a ridere quando magari una scena prevedeva un minimo di commozione.
Da appassionato so perfettamente che le narrazioni fantascientifiche (scritte o visive che siano) abbiano fisiologico bisogno di tanti e tanti tentativi, altrimenti poi non potremmo ammirare capolavori miliari. Ma qui siamo di fronte a un modello quasi collaudato di narrazione inclusiva che nulla vuole dalla trama se non il soddisfare ogni possibile requisito del passato e del futuro.

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