25 gennaio 2021

IL PROCESSO AI CHICAGO 7

Film equilibrato e di notevole spessore, che si guarda fino alla fine senza un attimo di rilassamento. 
La trama si basa su fatti realmente accaduti, che hanno segnato profondamente soprattutto l'America degli anni 70; ma che sembrano accaduti ieri, per quanto siano attuali e moderni gli argomenti e le tematiche trattati.
Qui su ilPost potete leggere i retroscena dell'intera vicenda, mentre su Wikipedia trovate anche delle interessanti note di produzione (sia qui che qui). Ho preferito non leggere le critiche altrui, perché l'operazione mi ha così appassionato che rischierei di perdere per strada sentimenti molto forti.
Fotografia regia, per esempio, sono impressionanti: si scambiano continuamente le parti, con inquadrature mai gratuite o senza senso; si vede che c'è un'intesa tra Sorkin e Papamichael, specie tenendo conto che in due scene violentissime (ma mai pruriginose) sono stati intarsiati ad arte filmati originali dell'epoca (e quasi non te ne accorgi). I movimenti di macchina, poi, non disturbano e non rincorrono i dialoghi, ma li rappresentano in maniera adeguata alla loro qualità e profondità. 
Veniamo alla sceneggiatura: eccellente, sotto ogni punto di vista. La scrittura di Sorkin riesce a coinvolgere, ma senza premere l'acceleratore sullo sdegno; quello lo aggiunge l'empatia del pubblico. Riesce a narrare senza partecipare: sono gli attori e gli eventi a presentare i fatti; fatti che ricostruiamo soprattutto dentro al processo, in tribunale. Le immagini probanti seguono i dialoghi, quasi in maniera giornalistica.  I tempi narrativi, poi, sono da manuale. 
Unica eccezione a questa sobrietà è la scena finale: non è accaduta esattamente così, ma diventa necessaria, quasi liberatoria; è come se il regista abbia deciso solo all'ultimo di partecipare al processo, di dire la sua.
Attori tutti nella parte, senza sbavatura alcuna. Non sono d'accordo con chi ha scritto che Sacha Baron Cohen rubi la scena: è il suo personaggio, semmai, che la rubava; e lui si è messo al suo servizio con un approccio impeccabile. Notevole anche Eddie Redmayne, che riesce a restituire tutte le possibili sfumature di un idealista convinto ma anche vincolato dalla sua educazione altoborghese. Squisito Frank Langella, che riesce a stare sulle palle con un'attitudine di rimessa; espediente difficile che solo un attore di rara esperienza avrebbe saputo restituire con così tante sfaccettature.
Musica mai esagerata, anche se mi sfugge perché non ci sia un accenno alla "Chicago" che Graham Nash scrisse apposta su questo processo. O è solo un problema di diritti oppure di una precisa volontà della produzione di evitare la retorica ad ogni costo.
Montaggio eccellente, veramente eccellente. Tenendo conto che l'autore è avvezzo a film di tutt'altro genere, il plauso è doppio.

Più in generale, una certa cattiveria diffusa online mi farebbe dire che non è un tipico "film Netflix", dilatato cioè per motivi commerciali. E, infatti, non lo è, visto che è nato per il cinema, per le sale insomma. Però, a chi divide sempre i film buoni da quelli cattivi basandosi solo su questi parametri, mi viene da dire che senza Netflix - e le piattaforme streaming in generale, il cinema sarebbe definitivamente crollato sotto i colpi della pandemia.

Tra tutti i momenti godibili, ne segnalo due.
Il primo vede uno degli avvocati difensori alzare la voce in maniera devastante, quasi epica, dopo l'ennesimo torto subito dal Giudice Hoffman. Fate caso alla vostra reazione: sarete combattuti tra l'approvazione di una simile reazione e lo sgomento per un atto così irriguardoso. È come se una parte di noi avesse un'idea di Giustizia così profonda che trova inaccettabile sia la faziosità del Giudice che l'irriverente esasperazione dell'avvocato.
L'altro momento notevole è l'interessante scontro tra i due leader più in vista, Abbie Hoffman e Tom Hayden: il primo, pragmatico e forse cinico, incline a un idealismo ad ogni costo, ma anche condito da una certa dose di consapevolezza. Conosce le sue contraddizioni e sa come aggirarle. 
Hayden, invece, deve barcamenarsi timorosamente tra il dover agire come rivoluzionario e il ruolo forzato di ragazzetto ligio alle sacre leggi non scritte della buona educazione patriarcale, tipica dell'America di quegli anni.
Il dialogo, lo scontro, è sofisticato, accurato, ben circoscritto, e capace di far capire fino in fondo cosa fossero quelle generazioni e quanto siano state importanti per rendere moderni gli Stati Uniti d'America.

Vorrei far notare un risvolto: per gli americani è ormai assodato che il dramma del Vietnam sia nato da Kennedy e non da Johnson. Mi chiedo allora come mai ancora oggi qui in Italia se ne parli poco e male, specie tenendo conto che siamo antiamericani acritici e anche un po' noiosi. È come se per noi rivedere un mito significhi rinnegarlo: esiste una via di mezzo che forse dovremo prima o poi affrontare.
Certo, non siamo ancora capaci di raccontare le nostre rivolte studentesche, i nostri "compagni che sbagliano", i nostri ideologi che ancora oggi calcano le scene dei media... quindi, forse, la mia è una pretesa impossibile. Ma auspicarla non costa nulla.

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