01 febbraio 2021

IL LIBRO DI TUTTI I LIBRI di Roberto Calasso (Adelphi)

Decimo dei (per ora) undici pannelli della gustosa e multiforme opera in corso di Roberto Calasso, questo Libro di tutti i libri è denso, ricco, evocativo: tra tutti quelli del progetto, forse è il più lineare, senza quelle digressioni, quelle variazioni sul tema - o al di fuori di ogni schema, che intarsiano i pannelli precedenti. 
Non è "solo" un racconto della Bibbia, ma anche il manifesto di un modo di raccontare la religione in una maniera tutt'altro che dogmatica o laica, e nemmeno da studioso asettico: porta in sé, insomma, un metodo di approfondimento che si evolve nel suo stesso approfondire; un libro che cerca se stesso mentre lo leggi, insomma. 
La mia non è solo un'affermazione funambolica: è lo stesso autore che in un'autointervista ha chiarito come questo libro - concepito subito dopo Ka, obbligava a una tale vastità di capitoli così complessi e vasti, che a loro volta meritavano pannelli a parte, più strutturati, che si realizzeranno a partire da K. per finire con L'innominabile attuale
Siamo di fronte, insomma, a una "libro cornice", sulla cui lettura grava (o aiuta) l'aver letto l'intera opera fin qui pubblicata. Se, quindi, Kasch è il dito che indica la Luna - e l'intero opus generato è il percorso tra il dito e la Luna - questo Libro è la Luna stessa, nel disperato tentativo di capire «cosa vi accade» da un punto di vista che non si lasci influenzare dagli altri punti di vista.
Sin dai primi capitoli, che trascendono dall'analisi biblica, sono protagonisti Iahvé (ben oltre il suo simbolo religioso) e il suo complesso rapporto con la futura Israele: dall'imposizione di un re iniziale - che di fatto trasforma gli ebrei da popolo sacerdotale a un regno (con tutti le contraddizioni del caso), al concetto di popolo "eletto" - dove quell'eletto è in relazione al saper «far procedere le storie e la Storia».
Dal "peccato" del censimento ai tempi di David - che di fatto espone i viventi anche al male, all'autentica soggezione provata nei confronti della sapienza degli egizi. Dalle incredibili similitudini con l'India vedica, all'idea di libero arbitrio che tale in realtà non è.
Dal fatto che Iahvé abbia scelto un popolo minuscolo per una gigantesca opera di espansione religiosa prim'ancora che militare, all'idea che la parola "ebreo" non delimiti solo i figli d'Israele. E che dire della potenza simbolica della circoncisione? Circoncisione che però è anche limite al piacere sessuale... E che dire dell'assenza di Giobbe, più che della sua presunta pazienza?
Incredibili, poi, sono le ri-letture di alcuni temi biblici così potenti: l'idea del figlio primogenito come ripetizione del rapporto tra Iahvé e il suo popolo; il peso specifico della Pesaḥ (la futura Pasqua, insomma); il vero significato dell'Esodo o del vitello d'oro o delle proverbiali tavole della Legge; il triste destino di Mosè, che a un'attenta lettura può non essere considerato ebreo ma egiziano!
E qui si apre il primo dei due capitoli che apparentemente escono fuori dalla base di questo saggio: una digressione su Freud e la sua visione di simbolico cannibalismo paterno, che in un suo saggio mira proprio a minare le basi dei postulati ebraici. La figura di Mosè viene dilaniata e riproposta in una versione che nulla ha a che vedere con la tradizione d'Israele. A questo si aggiunge l'idea che non sia stato il popolo ebraico il primo a forgiare il metallo del monoteismo. 
Il secondo dei capitoli fuori dal sentiero di questo testo fa cenno all'undicesimo pannello, che inizierò a leggere tra qualche giorno.
Il saggio chiude con l'inizio della Bibbia e la sua naturale conclusione nell'idea di Messia come necessità antropologica prim'ancora che cristiana.
Calasso, insomma, ha dato l'ennesima prova della sua capacità di mettere in dubbio, di destrutturare, di risvegliare l'anima, ma senza lasciare macerie al suo passaggio o addirittura idee di plastica o convenienti: l'autore obbliga il lettore stesso a rivedere ogni possibile forma di conoscenza, non importa da quale prospettiva.



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