09 maggio 2021

NOMADLAND, una stroncatura

Fern ha perso tutto: marito, lavoro, persino la propria città, visto che è stata letteralmente chiusa dopo il fallimento dell'industria che dava lavoro agli abitanti. 
E quindi viaggia, accettando lavori occasionali, incontrando persone occasionali, godendo paesaggi occasionali, rifiutando di fatto ogni possibile soluzione a questo nomadismo metà forzato e metà voluto. 
Tornerà nella città ormai deserta, per poi riprendere il proprio cammino verso chissà dove.

Premetto che l'ho visto poltronosamente a casa, in condizioni tecnologiche eccellenti, confortate dal potere del telecomando e dalla totale assenza della maleducazione del pubblico romano.
L'ho trovato un film lungo, inutilmente lungo. Attenzione, non "lento", perché i cambi di scena sono numerosi - con costanti e variazioni equamente incastonate; intendo "lungo" nel senso che la sceneggiatura prova a incrementare la tensione emotiva puntando sulla durata di una narrazione... che, alla fine, narrazione proprio non è.
Innanzitutto, ha uno stile documentaristico più che filmico. Si "assiste" senza "partecipare", tanto che non ci si affeziona ai personaggi, Fern compresa. 
Già: la McDormand recita col mestiere ma non con il cuore, restituendo un personaggio algido, senza empatia, che esegue bene il compitino assegnatole dal "ciak" della regista.
Gli altri personaggi sembrano più una rassegna di sfigati costretta al nomadismo, piuttosto che un qualcosa tipo il ragazzetto di Into the Wild, che il nomadismo lo aveva scelto perché romantico. L'unico che si salva è Bob, perché è sorridente e sereno e ha "scelto" di essere nomade perché gli piaceva; e guarda caso è un nomade vero.
Attenzione: non è che esista un modo di essere nomadi, per carità; però se il presunto messaggio di questo film era restituire un'aura nobile del nomadismo, poteva scegliersi personaggi (e dialoghi e sceneggiatura) diversi. 
Se, poi, è un modo dissimulato per presentare un'elegia della bellezza che ci circonda e che la modernità sta annientando, che dire? Smettiamola con questa mortificazione della comodità! Si è in contatto con la Natura solo se puzziamo e rinunciamo a una casa sudata col proprio lavoro? Sembra proprio di sì, visto che nella storia gli unici personaggi che lavorano seguendo i parametri del preconcetto sono degli avventurieri del real estate, un mestiere che negli USA è spesso speculativo, che vive sulle spalle di chi crede alle false promesse e spende più di quanto guadagna. Troppo facile limitarsi a queste macchiette preconfezionate, e anche un po' ridicolo: Marx è morto e il Muro è caduto da un pezzo. Se vogliamo contestare il modernismo dobbiamo trovare altri linguaggi, magari costruttivi, magari alla portata di tutti, magari senza il ditino che indica tutto e tutti.
C'è poi un aspetto che non rende credibile l'autenticità di questa visione del nomadismo: possibile che non ci sia un bullo, un malintenzionato, un cretino insomma, che non faccia qualcosa contro questa gente? A parte il guardiano notturno che intima a Fern di andarsene perché in quel parcheggio è vietato dormire in auto, il resto della storia si dipana senza un incontro malevolo che sia uno. Non volevo l'effettaccio criminale, ma un minimo di realismo sì.
La fotografia è buona. Siamo dalle parti della Grande bellezza (altro film brutto pesante) che di fronte alla bellezza romana non poteva sbagliare una virgola estetica. Qui abbiamo degli effetti cartolina niente male - specie tra le concrezioni dell'Arizona, ma con un'idea della sezione aurea che sta tutta nella mente del direttore della fotografia; in più, sembrano più inquadrature da Instagram che da film che ambisce al Valhalla dei premi mondiali.
Il montaggio è dignitoso, ma non prova a trovare un ritmo. Certo, era cosa difficile di fronte a questa noia ammantata da luddismo per borghesi pentiti; ma un tentativo di stacchi coraggiosi andava fatto.
Oscar totalmente immeritato: già che gli do 5 è grasso che cola, ma giusto perché mi sono piaciuti i paesaggi.

Veniamo al dibattito.
Qualche giorno fa, su Repubblica una lettrice ha scritto papale papale che non le era piaciuto e che si era un po' stancata dei critici che "decidono" cosa debba piacere, che non dicono la verità eccetera eccetera
Dal suo trono un po' impertinente, Merlo le ha risposto in maniera quasi sibillina, citando la famosa "cacata pazzesca" della Corazzata Potemkin. Non sto nella mente di Merlo, però una doppia domanda me la sono fatta: se alludeva al motivo di tale insulto, Villaggio chiarì che ce l'aveva proprio contro il criticume nostrano, ma non certo contro il film... e quindi, Merlo, il film ti è piaciuto!
Oppure Merlo ha trovato il film quella "cacata" che è, e ha voluto citare solo l'apparenza della citazione fantozziana? Boh, vallo a sapere.
Certo è che la critica italica è così intrisa di antiamericanismo dai capelli bianchi, di un'arte "necessaria" o addirittura che va capita (e quindi ce la spiega il critico stesso, figuriamoci), che non se ne può più.
Io credo che il critico debba scindere il gusto personale dalla qualità di un prodotto; soprattutto, deve conoscere i film, la tecnica, la tecnologia, la fotografia, intervistare, chiedere, mettersi in dubbio, mettere in dubbio il proprio sapere, approfondire, aggiornarsi... obblighi etici che chiaramente i critici di oggi (ma anche parte di quelli di ieri) praticano ben poco, pochissimo.
Sicuramente, una parte di essi è condizionata anche dalla convenienza di elargire una critica che soddisfi un mercato asfittico e privo di concrete prospettive per il futuro dell'arte cinematografica.
Che poi "arte" lo è fino a un certo punto: è anche industria; e non c'è niente di male a parlare male di un prodotto industriale se copia o non funziona.
Voi uno smartphone che non prende la linea lo comprereste? No. Ecco: Nomadland è un telefono a ghiera abbandonato che deve piacere "per forza", mentre invece fa tenerezza, quasi pena.

Nessun commento: