30 agosto 2021

leggere l'ULISSE di Joyce insieme a Nabokov (Adelphi)

Costretto dalla pandemia a vacanze stanziali a un'ora di auto da casa, la scorsa estate mi ero cimentato nell'endeca-opera di Calasso; questa estate, invece, mi sono voluto concentrare su un volume che occhieggia dalla mia biblioteca sin dal 1977, da quando morì il suo legittimo proprietario, il mio nonno materno: l'Ulisse di Joyce, nell'evocativa edizione dei Medusa della Mondadori. Curioso che di quest'uomo, così mitizzato dai miei occhi di bambino, abbia come unica testimonianza tangibile un testo così complesso che neanche aveva letto.
Paradossalmente, la mia difficoltà a esprimere una qualsivoglia critica sta quindi più nell'affettuoso rispetto nei confronti di mio nonno che nel confrontarmi con i sacri numi della critica di sempre; mi sentirei in difetto più nei suoi confronti che in quelli di chi è moltissimamente molto più colto e dotto di me.
Fatto sta che ho affrontato questa lettura facendomi aiutare da Nabokov: il suo saggio adelphiano è una potenziale bussola per districarsi dentro i supertecnicismi di Joyce. A uno come il sottoscritto, cui generalmente la trama interessa nulla, è stato invece necessario avere proprio un'idea di trama per entrare dentro un mondo così complesso, se non addirittura complicato.
Dall'alto della mia ignoranza, pur sempre cautelata dall'affetto per il proprietario originale, appena chiusa l'ultima pagina è scaturita immediata una e una sola domanda: perché?
Perché?
Perché Joyce ha scritto questo libro? 
Perché deve essere letto? 
Perché è definito un classico?
Onestamente, sono rimasto piacevolmente sedotto e impressionato solo dall'ultimo capitolo, quello del lungo monologo di Molly - oltre quaranta pagine senz'alcuna punteggiatura. Il resto del testo è stato un faticoso e quasi irritante muoversi dentro mille incognite, senza chiavi e senza uscita, dove l'unica costante della mia mente era concentrarsi - fino allo spasmodico dolore mentale - per evitare di sembrare un provincialotto presuntuoso che non riesce ad assaporare il buon vino accontentandosi di quello in tetrapak.
Se i suddetti "perché" sono velleitari e da supponente ignorante, la domanda che mi sta ancora appiccicata addosso - e che non riesco a eludere, è una quasi-locuzione, più banale ma anche meno esauribile: a cosa serve una scrittura così difficile?
A me viene spontaneamente in mente l'esergo di Oscar Wilde, quando nel Dorian Gray scrive che «tutta l'Arte è perfettamente inutile». Ecco, posta così mi sta bene. Il problema è che nell'Ulisse l'inutilità non ritorna utile o inutile a nessuno, neanche al lettore più acritico.
Vogliamo allora provare a parlare di esercizio di stile? Ci sto, tanto che ho amato Queneau e Marinetti e Perec e tutti quegli astri letterari che sanno usare il sapore delle parole senza trasformarle in pietanze. Il gusto dell'abuso di un termine è cosa metafisica e benvenuta. Ma qui, nell'Ulisse, siamo di fronte a uno scrittore che scrive per se stesso.
Ecco, forse, il limite di Joyce: così attento allo specchio della sua bravura da dimenticarsi del lettore, costringendolo neanche a seguirlo o a inseguirlo, semmai a cercarlo. E a cercarlo al buio, bendato e senza neanche sapere il perché.
Ritorniamo, quindi, alla domanda iniziale, ma rivolgendola a me stesso: perché dovevo leggere l'Ulisse di Joyce?

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