Eppure, è un'operazione ben riuscita, in cui tutti gli ingredienti funzionano a meraviglia.
Il primo, è l'argomento: la Juventus, tanto amata quanto odiata, e le sue ennetante uscite di scena dalla Coppa dei Campioni (ora la chiamano Champions League, ma sempre lì siamo). Di fatto, anche le uniche due vinte (una col nome originario, la seconda con quello nuovo), non sono vittorie: la prima, per il disastro belga; la seconda, perché vinta solo ai rigori. Certo, si parla di tutte le partecipazioni a tutte le coppe; ma alla fine i capitoli che pulsano sono quelli.
Il secondo, è lo stile di Pastore. Ricco, tautologico al punto giusto, quasi breriano, pieno di riferimenti e di incisi che non affaticano la lettura (anzi). Una miscela sapiente e misurata anche quando non è né sapiente né tantomeno misurata. Pastore conosce lo strumento della scrittura e lo usa sia al servizio della sua (legittima) vanità che al servizio della narrazione. Complimenti, insomma.
Il terzo, è la scelta di non presentare questo dramma collettivo in ordine cronologico, ma con un ordine di crescendum drammatico: dai primi vagiti di una squadra che quasi vedeva con fastidio le competizioni internazionali, alla stolida insistenza con cui si è inseguita una coppa che di fatto è maledetta, e maledetta resterà.
Un bellissimo libro, insomma, che piacerà anche a noi juventini.
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