Avevo quattordici anni. Michele aveva un impianto stereo niente male. Era laziale (lo è pure oggi, ahilui). E amava la musica. Come tutti i laziali aveva una predilezione per le aquile; per assimilazione, amava anche gli Eagles.
Prese la copertina del mitico LIVE! e subito partì il fragore del pubblico, poi un calpiccichìo e... On a dark desert aiuei, cul uind in mai eir... era Hotel California.
Era un periodo in cui avevo appena scoperto Jackson Browne, i Queen, i Pink Floyd e gli Yes. Ma questi cori, questo straordinario modo di fondere country e rock, pop e west coast, mi conquistarono all'istante.
Un anno dopo mi ritrovai con una chitarra in mano, lo spartito degli Eagles, e due grosse incognite: come si legge la musica?; ma, soprattutto, come diamine si fa un barrè?
Avevo le dita stupide, deboli, incapaci di dare la giusta pressione al nylon e al rame delle Savarez Rouge. E allora escogitai un trucco: misi le dita a mo' di pistola, presi una matita e la adesivai duramente lungo tutto l'indice disteso all'inverosimile; medio, anulare e mignolo, invece, ben piegati su di loro.
Per un mese mi forzai ogni notte a mantenere quella dolorosa condizione; il giorno, invece, mi ci sedevo sopra durante tutto l'arco delle lezioni liceali.
Dopodiché, cominciai lentamente ad avventurarmi dentro quegli accordi... e ce la feci: potevo finalmente suonare con gli Eagles. Peccato che non mi abbiano mai convocato!
Ciao, Glenn Frey, mi piace ricordarti con questa chicca meno nota, ma sublime: Sad Café
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