Signori, che film!
Finalmente un (bel) po' di intelligente ironia, di sana capacità di far conoscere le oscurità del nostro tristo passato senza cadere nella solita retorica, o - peggio ancora - nel balordo giustificazionismo relativistico all'itaGliana.
Che film! CHE FILM!
Devo dire che ero rimasto colpito dai giudizi negativi di Mario Pirani, mentre quelli palesemente invidiosi e non competenti di Sofri figlio di mi avevano convinto che l'opera avesse un grande valore. Però - e alla fine- conta sempre e solo il giudizio nostro, non quello per interposta saccenza. Mai fare i borghesi timorati, che cedono ad altri la propria intelligenza. Si dissipa e si estingue.
Ed è forse questo uno dei motivi per cui Andreotti è sopravvissuto a se stesso e a tutti noi. Proprio perché in troppi sono tornati indietro per riconoscergli una qualche qualità.
Il film è terribilmente epifanico (BUM!). Traduciamo: ognuno ci vede qualcosa. Chi vuole può seguire una propria personalissima profondità. Ma anche chi se ferma all'essenza dell'insieme non è colpevole d'ignoranza, anzi. La scelta di essere solo spettatori cinematografici può portare verso lidi che il critico neanche conosce, tanto ha svenduto la propria innocenza alle logiche del mercatismo all'itaGliana.
Però - e anche - è un film che sa raccontare, e contemporanemente commentare, e contemporaneamente denunciare, e contemporaneamente documentare. Un esercizio di stile difficilissimo che meriterebbe un'eco istituzionale più vasta di quanto non ne abbia effettivamente goduto.
Certo è che la potenza di questo film è diametralmente opposta a quella dell'ottimo Gomorra: lì si denuncia; qui si denunciava. Ma anche se il verbo è al passato, quella ItaGlia servile e servente resta.All'uscita dalla sala, in una notturna Trastevere morbida e incasinata, cercavo di proporre un paradosso alla mia signora e alla sua cara amica. È vero che allora sapevano stare a tavola, ma è anche vero che l'ItaGlia era più rustica, e le non-regole di quello stare a tavola erano dettate da convenzioni comunque condivise, da ogni livello sociale possibile.
Oggi è totalmente assente una non-regola assoluta per stare a tavola, e non c'è neanche una regola per esser degni e coerenti a idee assolute.
Ammettiamolo: è facile proclamare morali; è facile proclamarsi innocenti; è facile proclamare coerenze. Nessuno controlla. Nessuno verifica. Nessuno si indigna.
Però c'è (ci sarebbe) più possibilità di sapere, di conoscere, di andar dentro fino ai meandri più bui della possibile verità.
Ma da Andreotti siamo passati a Berlusconi.
Da Pasolini a Sofri padre.
Da Scalfari a Giordano.
Da Mario Mieli a Scalfarotto.
Non mi sembrano passi in avanti.
Il Divo, Paolo Sorrentino, Toni Servillo, Giulio Andreotti, Mario Pirani, Eugenio Scalfari, Scalfarotto, Sofri, Pasolini, Mario Mieli, Berlusconi, Italia, Politica, Cinema
Finalmente un (bel) po' di intelligente ironia, di sana capacità di far conoscere le oscurità del nostro tristo passato senza cadere nella solita retorica, o - peggio ancora - nel balordo giustificazionismo relativistico all'itaGliana.
Che film! CHE FILM!
Devo dire che ero rimasto colpito dai giudizi negativi di Mario Pirani, mentre quelli palesemente invidiosi e non competenti di Sofri figlio di mi avevano convinto che l'opera avesse un grande valore. Però - e alla fine- conta sempre e solo il giudizio nostro, non quello per interposta saccenza. Mai fare i borghesi timorati, che cedono ad altri la propria intelligenza. Si dissipa e si estingue.
Ed è forse questo uno dei motivi per cui Andreotti è sopravvissuto a se stesso e a tutti noi. Proprio perché in troppi sono tornati indietro per riconoscergli una qualche qualità.
Il film è terribilmente epifanico (BUM!). Traduciamo: ognuno ci vede qualcosa. Chi vuole può seguire una propria personalissima profondità. Ma anche chi se ferma all'essenza dell'insieme non è colpevole d'ignoranza, anzi. La scelta di essere solo spettatori cinematografici può portare verso lidi che il critico neanche conosce, tanto ha svenduto la propria innocenza alle logiche del mercatismo all'itaGliana.
Però - e anche - è un film che sa raccontare, e contemporanemente commentare, e contemporaneamente denunciare, e contemporaneamente documentare. Un esercizio di stile difficilissimo che meriterebbe un'eco istituzionale più vasta di quanto non ne abbia effettivamente goduto.
Certo è che la potenza di questo film è diametralmente opposta a quella dell'ottimo Gomorra: lì si denuncia; qui si denunciava. Ma anche se il verbo è al passato, quella ItaGlia servile e servente resta.All'uscita dalla sala, in una notturna Trastevere morbida e incasinata, cercavo di proporre un paradosso alla mia signora e alla sua cara amica. È vero che allora sapevano stare a tavola, ma è anche vero che l'ItaGlia era più rustica, e le non-regole di quello stare a tavola erano dettate da convenzioni comunque condivise, da ogni livello sociale possibile.
Oggi è totalmente assente una non-regola assoluta per stare a tavola, e non c'è neanche una regola per esser degni e coerenti a idee assolute.
Ammettiamolo: è facile proclamare morali; è facile proclamarsi innocenti; è facile proclamare coerenze. Nessuno controlla. Nessuno verifica. Nessuno si indigna.
Però c'è (ci sarebbe) più possibilità di sapere, di conoscere, di andar dentro fino ai meandri più bui della possibile verità.
Ma da Andreotti siamo passati a Berlusconi.
Da Pasolini a Sofri padre.
Da Scalfari a Giordano.
Da Mario Mieli a Scalfarotto.
Non mi sembrano passi in avanti.
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