L’ho visto. L’ho visto perché Shyamalan è il regista che dice le cose che provo e che non ho il coraggio di raccontare, perché in troppi mi sottovaluterebbero, sminuendo di fatto sentimenti e sensazioni che invece andrebbero perlomeno rispettate.
Già nel Sesto senso aveva esplorato la mia infanzia, episodi che avevo vissuto anch’io e che solo la sana follia di mia madre aveva allontanato dal mio senso del reale, che reale non era perché me lo stavo costruendo dentro di me.
Inesorabilmente.
Inesorabilmente verso la fine di un’infanzia che forse non ho mai avuto.
La storia di E venne il giorno forse è costruita su troppe ovvietà, lo so. Però quella condizione umana del sentirsi impotente di fronte a una rivolta così esponenziale, “giusta” sotto tutti gli aspetti. E trovarsi poi pensare “cosa potevo fare io prima che accadesse tutto ciò”, “quante volte ho provato a dirlo ai miei simili”… tutte condizioni borghesi che forse capiremmo in pochi.
Già la mia trilaureata donna di servizio se ne fregherebbe di certi sentimenti, presa com’è dal mettere insieme il pranzo con la cena, assopita com’è dal pensare che forse perderà un figlio sclerotico, incapace di immaginarsi inesorabilmente persa della sua essenza di madre e donna.
Però il film può anche essere visto per quello che non è: un dato di fatto.
E il dato di fatto è: stiamo vicini alla fine.
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