Ieri notte, insomma, tra le pareti sornione del Teatro Mancinelli di Orvieto (persino tra gli spettatori più distratti) sono tornati i neri dei campi, le ombre dei primi bluesmen, le anime dei coristi delle chiese periferiche dell'America più nera, il riscatto dei bimbi di colore costretti a scimmiottare gli adulti troppo presto.
Un concerto vivo e pulsante che doveva rispondere a tono con quello precedente - altrettanto mirabolante - di Batiste, e che ha (di)mostrato quanto le radici del jazz siano più vaste ed eterogenee di quanto la vulgata pretenda di stabilire. Una performance che ci ha inchiodato un sorriso ebete sul faccione infreddolito, divertito e soggiogato da tanto colore.
Commoventi ed espliciti omaggi a Miles Davis, Fats Domino e Ray Charles, con languorosi picchi di nostalgia dalla New Orleans orgogliosamente risorta dalla profonda ferita da Katrina, e altri momenti in cui sembrava di stare dentro un locale sudafricano gestito da neri del sud, residenti però a Miami.
Da sottolineare il superfunky bassismo di Mark Brooks, il batterismo giamaicano di Desmond Williams, le bravissime coriste supertonde ma agilissime.
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