29 aprile 2020

l'infermiere

Alcuni di voi lo conoscono, specie chi frequenta questo blog da quando è nato... oddio, quando è nato?
Pensate che il primo html lo ritoccai io: una splendida versione in tre colonne, con l'header dedicato a Corto Maltese. E una quantità interessante di lettori: anni fa, i blog andavano per la maggiore, e questo minimAL si difendeva bene... vabbè, altri tempi.

Insomma, la persona di cui vorrei parlare è stato il mio infermiere per sei mesi, quando la mia gamba destra si ridusse in un pacchetto di cracker su cui si era seduto un elefante, di quelli pesanti.
Io l'infermiere non lo volevo, ma non solo per una questione di cacca mattutina (che quando stai bloccato a letto diventa un problema, ve lo assicuro), ma per dignità personale. Insomma, non mi piace cedere. 
Mai.
Qualcuno crede che ami recitare la parte dell'uomo forte. Non so che dirvi, ma io non recito. È che onestamente non capisco le persone fragili: parliamo due lingue diverse. Per me la fragilità non esiste. E accettare un infermiere significava dimostrarsi fragile.
Questo immenso pezzo di bontà si ritrovò davanti uno scorbuticone (che peraltro non era andato in bagno da dieci giorni) che scalciava e che non ne voleva sapere di avere una persona tra i piedi.
I primi giorni devo proprio averlo trattato male, malissimo. Quasi non gli rivolgevo la parola. E però riuscì a sembrare quello che poi era, perché non faceva mai un plissé, non palesava mai fastidio o irritazione per il mio pessimo comportamento. E poi, a proposito di cacche, chiarì subito che lui le puzze non le sentiva. Non so se fosse vero o no; ma era già un ottimo inizio.
Con lui ho ripreso a camminare. 
Lentamente. 
Inesorabilmente.
Nonostante dolori atroci e una gamba che ancora oggi sembra mezza sgonfia. Degli oltre 30 chiodi e vitarelle e mantice sputacchiato, mi sono rimaste giusto tre viti perché il grande Massobrio ha preferito lasciarle lì.
E Simone stava sempre lì accanto a me, ogni santa mattina. Colazione, cesso, doccia... ah, già, non vi ho detto che non mi piace farmi vedere col pipicchio di fuori. Allora Simone mi sollevava di peso, gesso compresso, mi buttava semivestito dentro la vasca, aspettava che mi lavassi fa solo, aspettava inoltre che mi coprissi il pipicchio per fatti miei, e poi entrava e mi risollevava di peso per rimettermi sulla sedia.
All'inizio la terapia era da fermo. E lì si "vendicò", nel senso più affettuoso del termine, per carità: mi raccontava tutte le sue partite di texas hold'em. Sono certo che se gliele richiedessi oggi, me le saprebbe raccontare intatte come allora, mano dopo mano, carta per carta.
Il nostro rapporto divenne sempre più affettuoso, tanto che a volte mi chiedeva consigli o mi raccontava i fatti suoi. 
Il giorno che da casa, stampelle e tutore bloccato indossati a dovere, andai fino al cimitero dietro il vecchio campetto della Roma, fu un giorno unico e irripetibile: tutto da solo, con lui accanto, contro dolori lancinanti che non vi sto a raccontare. E lui, sorridente e disponibile, pronto a farsi in quattro per me.
Quando riuscii a riprendere in mano la mia vita, Simone si eclissò, com'era giusto che fosse. Giusto un paio di Natale dopo, ci incontrammo alla Stazione Termini; ma poi più niente.
Io non so in quale reparto ospedaliero lavori e che tipo di assistenza faccia. Ma so una cosa: chiunque passerà sotto le sue manone piene di dita, il suo faccione sorridente, il suo naso che puzze non sente, sarà un paziente fortunato.

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