Voglio dire che con mio padre, con mio suocero, con Marco Risi (che è la generazione di mezzo), con addirittura mio nonno (a guardarsi indietro), abbiamo condiviso lo stesso modo di andare in sala. Abbiamo differenze generazionali su innumerevoli cose, ma non su questo modo di vivere l'unica vera arte collettiva che l'uomo sia mai riuscito a tirar fuori dal cilindro: il cinema, appunto.
Gli odori, innanzitutto. Quello di cera dozzinale che veniva spalmata a mano in maniera svogliata da tuttofare di sala che spesso erano anche bigliettai, maschere improvvisate (chi strappava i biglietti, per intenderci), elettricisti, proiezionisti...
La cera di sedie scomode, con lo schienale che sbatteva ogni qualvolta ti alzavi per far passare qualcuno. E, naturalmente, se provavi ad andare in bagno, la porta del cesso era sempre illuminata a foggia di spione: quello va a pisciare, quello va a pisciare...
Già, la maschera. Se mia madre presentava i biglietti omaggio, c'era sempre una mancia per la signorina, che spesso ci accompagnava in sala indicandoci un posto lì in fondo... che inevitabilmente cambiavo per sedermi dalla parte opposta.
La fila. Fare la fila per accaparrarsi il posto migliore: una battaglia epocale, in cui mamme distratte inserivano figli monelli tra le maglie di altre mamme distratte. Il primo che arrivava, prendeva posto per mezza dozzina di matti scalmanati. Se di mezzo c'era un papà enorme, finiva sempre in urla che duravano lo spazio di un momento.
Cappotti arrotolati per far vedere lo schermo al più basso della famiglia, perché davanti a te si sedeva sempre lo stronzone altissimo o la mamma col cappellino-che-non-posso-togliere.
Pop-corn vietati perché fanno male al pancino, poi stasera non ceni e te le do sopra.
Posti in piedi o sugli scalini, il venerdì, il sabato e la domenica. Ho visto più film seduto sugli scalini io, che un personaggio di Vittorio De Sica.
Si poteva entrare anche a proiezione iniziata. Per anni non ho capito l'inizio dei film (tanto l'avrei rivisto subito dopo), perché per buoni dieci minuti i ritardatari facevano più casino di una banda di irlandesi nel giorno di San Patrizio.
Il rumore del proiettore, l'unico consentito. Già, per quanto possa sembrare strano, nessuno smartphone, chat, luce, lucina, commenti inutili, vecchiette reprobe o ragazzini distratti. La sala era il polmone del film: respirava le scene e le commentava all'unisono. Si rideva insieme, si piangeva insieme, ci si agitava se il buono prendeva gli schiaffi o se il cattivo stava covando la trappola mortale.
Potevi vedere i film più volte, con un solo biglietto.
Ma, soprattutto, per molti anni quel film non l'avresti più rivisto: la televisione non lo trasmetteva pressoché immediatamente come usa adesso. La nostra memoria visiva e l'imparare lesti le battute migliori ci hanno aiutato non poco nella vita sociale di ogni giorno: interi pomeriggi a ripetere certe scene o a commentare certi passaggi. De visu, senza whatsapp, Twitter...
Potevi vedere film "antichi", anche quelli veramente vecchi, che i tuoi genitori avevano visto loro da giovanissimi. E il nostro gusto e la nostra passione erano tali che non ci importava più di tanto questo apparente contrasto cronologico.
Spoiler. Sì, qualcuno spoilerava, ma era cosa rara e spesso con la coda di una grande fuga per i vicoli romani. Certo, in classe qualche scemo ti raccontava come andava a finire, ma dopo un paio di volte che c'eri caduto, evitavi poi di affrontare l'argomento.
Rimorchio. Ecco, questo per me è stato complicato, perché o mi accompagnava mia madre o - quando ero cresciuto - andavo in gruppo, magari con l'intento di provarci con una compagna di classe che regolarmente mi sfanculava, mentre magari in sala c'era quella biondarella che mi facevo il faccione rimorchione.
Costi. Il cinema era veramente per tutti: c'era la prima visione, la seconda visione, le sale d'essai e quelle parrocchiali. Io ho visto tutti gli 007 al cinema, saltando solo quelli con Dalton. Tutti. E per una serie incredibile di botte di fortuna, li ho visti in ordine; ma questo l'ho scoperto anni dopo. Allora non esisteva internet ed era difficilissimo avere informazioni, di qualsiasi tipo. Certo, potevi andare in libreria e sfogliacchiare questo o quel libro, ma non era cosa di tutti e i libri fatti bene erano pochi e costosi.
Ricordo con un immenso groppo in gola quelle giornate intere passate in sale che ormai non esistono più, alcune veramente epiche: Clodio, Labirinto, Augustus, Tuscolano, Reale, Induno... sale in cui ho incrociato sguardi, espressioni, odori, vestiti, persone di ogni dove, svestite della propria identità e totalmente asservite all'Emozione.
Ecco: emozione.
Ancora oggi, quando partono i bumper delle major di altri tempi, io ho un groppo che m'invade il corpo e l'anima, che devo fermare prima che si manifesti in lacrime e ricordi, perché non si può vivere guardandosi indietro.
Sean Connery c'era sempre.
Il giorno più lungo, Zardoz, Il vento e il leone, L'uomo che volle farsi re, Robin e Marian, Quell'ultimo ponte, Meteor, Highlander, Gli intoccabili, Caccia a Ottobre Rosso, Il primo cavaliere.
Ricordo il bruttissimo Robin Hood con Kevin Costner. La sala si stava annoiando come raramente mi era capitato di vedere. Ad un certo punto - verso la fine - si sente una voce fuori campo: stacco sul volto di un re, l'unico re che poteva salvare una pellicola dal disastro totale.
Era Sean Connery.
Scoppiò un applauso fragoroso, epico, unico, un omaggio spontaneo e sentito, intergenerazionale, che sovrastò il suo dialogo quasi per intero.
La sera stessa in cui è morto, ho rivisto Dottor No, Licenza di Uccidere insomma. La sua primissima scena è un paradosso teatrale: per non impallare l'inquadratura, si accende la sigaretta dalla parte opposta (da destra verso sinistra, insomma), senza guardare. Provate a farlo voi e minimo bruciate casa vostra e quella del vicino.
Ma per Sean Connery tutto era naturale, fluido, sobrio, senza sudori, puzze o fatiche, costantemente ma naturalmente attento verso se stesso e la trama, rispettoso di quel sottile patto con il pubblico che rende un attore così mitologico.
Indossava subito i suoi personaggi, mantenendo l'esatto equilibrio tra ruolo e interpretazione. Ci aspettava in sala come fosse un amico, e ci regalava la mAraviglia. E poi ci accompagnava nella nostra quotidianità, appiccicato nel cuore, come una brezza di affetto inaspettato.
Più che con una citazione da uno dei suoi Bond (i migliori, chiaramente), vi lascio con questo commiato dal Vento e il leone.
A Theodore Roosevelt: tu sei come il vento e io come il leone. Tu crei la tempesta, la sabbia punge i miei occhi e la terra è arsa. Io ruggisco e ti sfido ma tu non mi senti. Però fra noi c'è una grande differenza. Io, come il leone, devo rimanere nel mio posto. Tu, come il vento, non sai mai quale sia, il tuo posto. Mulay Achmed Mohammed el-Raisuli il Magnifico. Signore del Rif. Sultano dei Berberi.
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