04 novembre 2020

LA FOLIE BAUDELAIRE di Roberto Calasso (Adelphi)

Sesto di un'opera in costante evoluzione (ad oggi di undici volumi), questo racconto/saggio/requisitoria di Roberto Calasso sembra una discesa nel lato oscuro della cultura francese, ormai orfana della Rivoluzione come anche delle gesta illusorie di Napoleone. Che poi usare l'aggettivo "oscuro" è totalmente fuorviante: a voler fare una similitudine semplicistica, è un po' come quella parte della nostra libreria che è sempre in penombra: per quanto i titoli possano essere illuminanti, quella collocazione forzata ne mortifica involontariamente la forza e il contenuto.
Il perché di questo titolo - e quindi l'ambito intrigante del significato del testo, lo scopriamo nelle ultime pagine, quando cioè Calasso ragiona su un ragionamento di Sainte-Beuve: "Baudelaire ha trovato modo di costruirsi, all'estremità di una lingua reputata inabitabile e al di là dei confini del romanticismo conosciuto, un chiosco bizzarro, assai ornato, assai tormentato, ma civettuolo e misterioso, dove si leggono libri di Allan Poe, dove si recitano sonetti squisiti, dove ci si inebria con hashish per ragionarci poi sopra, dove si prendono oppio e mille droghe abominevoli in tazze di porcellana finissima. Questo singolare chioso, lavorato a tarsie, di una originalità concertata e composita, io lo chiamo la folie Baudelaire. L'autore è contento di aver fatto qualcosa di impossibile, là dove si credeva che nessuno potesse andare".
Tornando indietro, agli inizi del saggio, Calasso si muove tra le scelte artistiche e private di Baudelaire (spesso commistiate tra loro senza soluzione di continuità), interpretando e rileggendo alcuni passaggi della sua vita che abbiamo sempre ritenuto assodati.
Per esempio, gli esatti confini del discusso rapporto con Jeanne Duval: "Non vi è traccia alcuna che Baudelaire aspirasse a una qualche vita familiare (neppure un sospiro come quello di Flaubert). Al più agognava una vita domestica tranquilla, ben assestata, ripetitiva: l'opposto di quella che gli si offriva ogni giorno".
Oppure il suo uso nascostamente strumentale della sua passione per Poe: "Cresciuto sotto il cielo quadrato delle Solitudini, Baudelaire mantenne sempre un qualcosa di adolescenziale, una certa turbolenza spavalda e desolata. Non raccontò mai quegli anni, ma ne accennò per interposta persona, come gli era consueto, attribuendo i suoi sentimenti di allora a Poe".
E quindi quello strano senso di autocommiserazione mai portata a estremo compimento: "Baudelaire fu un sommo perito dell'umiliazione. Nessun altro scrittore, per quanto travagliata la sua vita, può competere con lui nella pratica di quello stato". Che potremmo mettere accanto a questo passaggio: "Baudelaire fu il solitario, impavido sostenitore del diritto irrinunciabile di contraddirsi".
Interessante, poi, il porre la città come sfondo partecipe del suo approccio poetico: "La Parigi di Baudelaire è caos dentro una cornice. Essenziale è il riconoscimento del caos, del pullulare delle forze e delle forme, della benevola ospitalità data a tutte le varianti del mostruoso [...] Tutto ciò che avviene all'interno della cornice esalta gli elementi che vi sono circoscritti, li obbliga a ibridarsi in combinazioni mai sperimentate. Così nasce il nuovo".
Si respira poi una sorta di repulsione a classificare la presunta oscurità dell'artista dentro canoni freudiani: "Innumerevoli sono stati i tentativi di sottoporre Baudelaire a una qualche direzione psicologica. Immancabilmente maldestri e importuni. La psicologia si ferma prima della letteratura. E Baudelaire era andato oltre la letteratura. Ma rimane indubitabile che ad ogni sua frase si sprigiona il profilo di una persona, di un clima psichico, di un certo modo di sentirsi vivi".
E, come in tutti i libri di Calasso, è avvincente anche la cornice di altri pesi massimi della cultura, i cui pensieri spesso figurano come inconsapevoli coautori collaterali: Proust, Hölderlin, Gautier, Rimbaud, Flaubert, Nietzsche, Mallarmé, Valéry. Un profluvio di pensieri e annotazioni che inebria e coinvolge.
Ci sono, poi, artisti intorno ai quali si disvelano altri aspetti di Baudelaire. Artisti come il poco amato Ingres, "soltanto genio" come sottolinea l'autore stesso, la cui matita aveva sulla carta "la stessa delicatezza della mosca che erra su un vetro"; matita che trovava nel disegno "i tre quarti e mezzo di ciò che costituisce la pittura". Estraneo al proprio tempo, Ingres era incolto e refrattario alla cultura. Innamorato della figura femminile, eccelleva nell'esaltare le parti meno immaginabili dell'erotismo femminile raffigurato fino ad allora. 
Altra figura analizzata: Delacroix. Quasi ossessionato dalla sessualità, la sua figura viene usata come ideale utile fulcro per introdurci nel sogno quasi-erotico (e qui forse molto freudiano) di Baudelaire in un bordello in cui si sviluppa un gioco costante tra illusione, estasi, sogni e riferimenti personali.
Ma è con la lunga e dotta analisi sulle tecniche di Degas che Calasso dà il meglio di sé, disvelando una personalità non solo pittorica: il suo andare oltre le "inquadrature" classiche, cogliendo le figure raffigurate in pose eterodosse dove il loro sguardo non si posa verso l'altro o verso lo spettatore, ma altrove, con un'espressione e una mimica facciale imperscrutabile se non conflittuale. Sono pagine magnifiche, quelle di Calasso, dove finalmente si coglie la potenza di un artista di cui spesso conosciamo solo le ballerine e poco più.
Un libro incredibile, che conferma quanto quest'opera senza fine di Calasso sia una delle poche isole intellettuali ancora vive e fiorenti, intorno alle quali vale la pena soffermarsi per poi trovarvi rifugio.

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