12 gennaio 2021

PIECES OF A WOMAN

C'è qualcosa di intrigante in questo film, che però si spegne alla lunga distanza, forse perché parte troppo "forte", forse perché la sceneggiatura si affloscia lentamente dopo i 23 minuti iniziali, folgoranti quanto dolorosi.
Grazie all'iperdiffusione nel web, la storia è già nota: l'ottima Vanessa Kirby perde il figlio subito dopo averlo partorito, non senza colpe bisogna dirlo; il film racconta quel che resta del "dopo", desolante e fermo su se stesso, con un leggerissimo guizzo nel preambolo che apre al finale.
Come premesso, i primi 23 minuti sono eccellenti sotto ogni punto di vista: attoriale, perché i tre interpreti recitano e si muovono in maniera credibile e accurata; tecnico, perché il piano-sequenza non è né finto né furbo, tanto che solo alla fine ti accorgi del suo essere senza stacchi; fotografico, perché la telecamera non indugia e non ammicca, inseguendo il dramma con empatia misurata e con curiosità pudica.
Già, la fotografia: la vera scoperta di questo film. Alcune inquadrature, così "antonioniane" e molto coraggiose, sono la vera rivelazione di questa operazione altrimenti fiacca. Le luci, poi, sono sempre in asse e capaci di cambiare registro a seconda del contesto e dell'ambientazione. 
La regia latita, invece: è come se si fosse sforzata così tanto all'inizio da non saper poi porre coerenza al resto della narrazione. Visto che nasce come plot teatrale autobiografico, era meglio far muovere gli attori su piani fissi, anziché far muovere la telecamera che inseguiva gli attori che si muovevano. Insomma, c'è molta confusione sotto il cielo. Così confusa, che quasi non si percepisce il dramma del confronto tra la protagonista e la mamma, Ellen Burstyn, a suo tempo partorita in un campo di sterminio.
Citavo Antonioni, padre e figlio del cinema dell'incomunicabilità. Se il Michelangelo nostrano sapeva obbligare il linguaggio cinematografico alle sue esigenze espressive, qui abbiamo una sceneggiatura che non trova un modo adatto per esprimere il lento e inesorabile declino della coppia. Lui piange sempre, lei sta sempre incazzata. Troppo poco, troppo facile, troppo da streaming con pigiamino e cordiale sul comodino.
Musica splendida, ma troppo appiccicosa. Oltretutto, è una partitura da ampio respiro che mal si attaglia con le scenografie comunque algide, anche quelle all'aperto.
Dopo The Crown, la Kirby si sta rivelando sempre più misurata nel saper mettere in discussione il suo fascino, restituendo anche un'idea sottintesa di buona recitazione; in questo film, poi, sa giocare nitidamente con gli angoli più bui del suo volto, rendendosi brutta, addirittura penosa, con estrema naturalezza.
Una domanda: perché la scena del parto è all'inizio? Non era meglio partire dalla fine - magari con quel bellissimo ma breve apologo sussurrato in tribunale - e poi terminare con il piano-sequenza del parto casalingo?

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