Televisione in bianco/nero, mentre nel paese fa già capolino il colore (PCI ed MSI contrari), che se vedi l'Olanda giocare, già sono veloci per conto loro; col colore, poi, diventa tutta una strisciata di arancione che pennella lo schermo.
Italia-Brasile. Con l'attitudine alla sofferenza e alla sconfitta, già mi aspetto una strage di gol.
Segna Rossi, ancora freddo di inno nazionale. Non te lo aspetti, e non ci credi. Ora ci massacrano, penso.
E, infatti, lui - Socrates, "il dottore" - un pennellone lungo lungo lungo anche se mortificato dalla prospettiva schiacciata delle riprese, anche se ti auguri che inciampi, anche se Zoff parerà pure i moscerini; gli prende l'angolo che è impossibile, senza neanche pensarci (perché i brasiliani non pensano; calciando esprimono il pensiero; hanno le sinapsi tonde e con gli scarpini, 'sti maledetti).
Mi alzo, e spengo la tivvù. Per me la partita finisce là: non ne voglio più sapere di soffrire dietro una squadra che non vince mai e che soffre sempre.
Poi qualcosa mi dice "ariaccendi, scemo... ariaccendi!".
Il resto è storia, si sa.
Però, se dovessi dire cosa ricordo di quella partita, e che porto nel cuore come un confetto di nostalgie senza senso, è quel mio gesto di alzarmi e spegnere il pulsante sull'eco di Martellini che commentava il replay. D'Italia-Brasile non ricordo l'esultanza isterica e antisportiva di Falcão, né il gol ingiustamente annullato ad Antognoni: ma quel mio gesto così infantile e disperato, perché Socrates mi aveva rotto il giocattolo... poi però la partita l'ho vista tutta, e fino in fondo, correndo dopo a perdifiato per tutta Fori Imperiali a ridere come uno scemo per quella vittoria così impossibile.
So long, Socrates, so long.
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