
11 marzo 2025
OPERAZIONE OVERLORD di Max Hastings (Neri Pozza)

27 febbraio 2025
TRUE WEST, LA VITA DI SAM SHEPARD di Robert Greenfield (Jimenez)
La California era ancora la nuova frontiera dove tutto sembrava possibile, il vero West dove prevaleva ancora lo spirito del fuorilegge. Negli anni, questa sensibilità permeò il suo lavoro, consentendogli di mettere in scena una visione della vita americana mai vista prima sul palco
C’erano così tante voci che non sapevo da dove cominciare. Era splendido, davvero. Mi sentivo come una specie di strano stenografo. Di sicuro c’erano delle cose là fuori e io mi sono limitato a mettere per iscritto
Ho due parti in me che sono proprio incompatibili. Una è totalmente indisciplinata e vuole solo darsi all’avventura. L’altra ha quest’aria da vita ordinata e disciplinata
17 febbraio 2025
GIORNALISTA/INFLUENCER ovvero IL GIORNALISTA CHE SPIEGA SOLO SÉ STESSO
Il giornalismo (almeno quello italiano) sta virando verso un’impostazione di fondo che non riesco ancora ad accettare.Personalista e personalizzato; alla sola ricerca del click in più; autoreferenziale; inchieste costruite sui propri preconcetti; video in cui si cerca la posa anziché la dialettica e il confronto; interviste/forum in esclusiva ai propri colleghi/amici in cui si parla solo di sé stessi e delle proprie interpretazioni della realtà; una costante impellenza a voler/dover dire tutto su tutto e sempre, ma senza misurarsi con il giusto, il gusto e l’opportunità; sintassi scolastica e dizione approssimativa; argomentazioni da bar dello sport; condanna a priori dell’utente critico; ritenersi al centro della notizia, anziché servitori dell’informazione; pensare che il solo viaggiare significhi essere più bravi di Oriana Fallaci; difendere i deboli, ma senza far parlare (o ascoltare) veramente questi deboli
- - -
Quando scrissi queste poche parole in coda alla prima rassegna del 2025, senza fare un nome che fosse uno, un mio collega mi disse che in controluce intravedeva anche la figura di una giovanissima giornalista, in quel momento intoccabile perché intricata dentro una crisi geopolitica.
In effetti, la ragazza è un esempio di quel giornalismo social/ista che nulla ha a che vedere con la notizia, con gli approfondimenti, con la difesa della realtà di cui abbiamo veramente bisogno.
Con le sue pose e il suo parlare per frasi convenienti, infatti, rappresenta appieno il giornalista/influencer: parla sempre di sé; si documenta solo all’interno del suo pretendere di sapere già cosa sia la realtà; un mondo che racconterà dalla prospettiva di un ipotetico selfie, con la notizia o la storia sfocate sullo sfondo.
Non è immune da questo social/ismo anche un giovanissimo tiktoker, diventato famoso perché nei suoi video in pochi secondi bignamizza con parole chiare e superficiali i classici della Letteratura e della Storia. Il problema non è la sintesi, ma il modo acritico con cui ha edificato lentamente il suo personaggio: il ragazzo, infatti, si autointerpreta con pose anacronistiche, schermate da un’eloquenza apparentemente profonda, tanto da aver svegliato Repubblica dal suo torpore editoriale, visto che gli ha proposto una rubrichetta per quei giovani che mai leggeranno Repubblica.
È un sempre più diffuso modo plastificato di non/esistere che avevo intravisto addirittura durante un funerale di cui vi avevo parlato qui, e che adesso sto incontrando anche in un contesto “sacro” come il giornalismo scientifico (ne parlerò).
Paradossalmente, nel cercare di dargli sostanza mi aiuta la parola stessa, “influencer”: colui che influenza, come fosse un virus. Anzi, no: è peggio di un virus, perlomeno per come poi reagiamo noi. Il virus lo individui, lo studi; hai persino la dignitosa volontà di combatterlo, per arginarlo.
Questo virus, questa viralità, invece, è un modo di non/esistere accettato da tutti, anche da chi ancora ne è immune o vaccinato.
È come se il social/ismo avesse scovato e poi liberato una pulsione subdola del nostro ego, contro la quale siamo totalmente indifesi: apparire la propria apparenza; accettare quella degli altri ma solo se gli altri hanno accettato la nostra; pensare che la nostra bolla sia la realtà; escludere chiunque non vanti la sua Capalbio virtuale (follower, collab, eventi, like, meme, pose, politically correct…).
Questo non/esistere così informe ed elitario (un’élite non di classe, purtroppo), mi ricorda il bellissimo film grottesco Society (1989), di Brian Yuzna. Vi suggerisco di cercarlo: non parla dei social, ma di tutto il resto
13 febbraio 2025
PARTHENOPE, una stroncatura
Ci dev’essere un qualcosa in comune tra certi maschietti borghesi, che quasi all'improvviso li porta all’impellente necessità di rimestare nel torbido dei propri pensieri. Altrimenti, non si spiega come mai registi straordinari come Antonioni, Fellini, Kubrick, Godard, Bertolucci, ad un certo punto della loro vita abbiano proposto film inutilmente pruriginosi.
Eros (2004), La città delle donne (1980), Eyes Wide Shut (1999), Prénom Carmen (1983), The Dreamers (2003), hanno in comune un’inutile e insistita autopsia del corpo femminile come solo oggetto del desiderio, l’ostentazione di momenti sessuali tutt’altro che allusi, trame incongruenti e confusionarie, un approccio da guardoni che proprio non ti aspetti da questi monumenti dell’etica e della cultura. A questa tendenza non scritta si è accodato anche Sorrentino con il suo Parthenope (2024), il cui sottotitolo doveva essere La gLande bellezza.
Ora, io non appartengo alla categoria dei bacchettoni, né tantomeno mischio gusto personale e oggettività artistica: è che qui siamo di fronte a un film brutto, sia tecnicamente che esteticamente.
A me frega nulla della carne esposta, anche quando non ha scopo narrativo. Contesto, questo sì, l’indugiare pruriginoso e voyeuristico su una scopata pubblica tra adolescenti terrorizzati, su una giovane che si fa masturbare da un vecchio e laido sacerdote, sul vedi-non-vedi di un vestiario inutilmente microscopico, sulle scene saffiche riprese a una distanza da sincrotone: così come sono proposte e indugianti, diventano scelte zozze, gratuite, maschiliste e totalmente prive di scopo narrativo. Che ci siano o no, nulla cambia nell’insieme della trama.
E mi meraviglia che le femministe nostrane non si siano scagliate contro questo accrocco di tette, scopate e sguardi sporcaccioni, che ci buttano indietro di venti anni, riportando la donna a oggetto, a strumento amimico e remissivo di piaceri pseudobestiali.
Andando sul tecnico, invece, le riprese esterne sono un disastro, il montaggio pessimo, l’audio impresentabile, la sceneggiatura un colabrodo.
Vado nel dettaglio. Le luci degli esterni sembrano sistemate a coda di cane: altrimenti non si spiegano i cieli diurni sempre appannati, che oltretutto banalizzano i primi piani. Le riprese notturne, invece, perdono spesso la profondità di campo.
Montaggio: campi e controcampi senza nesso, inserti spesso inutili e controproducenti, ritmo inesistente.
Audio: tanto vale mettere i sottotitoli. A parte Silvio Orlando e Luisa Ranieri, il resto degli attori si mastica le parole. Il canale del commento musicale, poi, sovrasta tutto il resto.
La sceneggiatura è qualcosa che non capisco proprio. Bisogna concentrarsi parecchio per intuire i cambi di scena o il senso di certi frammenti narrativi buttati là. I dialoghi sono a metà tra Ciquito e Paquito e i Baci Perugina, con un flusso a corrente alternata di massime e di sentenze: lo spettatore si sente come Alberto Sordi e Anna Longhi in quel piccolo capolavoro che fu Le vacanze intelligenti (1978). L’unico monologo da salvare è quello di Luisa Ranieri. L’unica scena preziosa è l’abbraccio con Silvio Orlando.
Più in generale, a me sembra che Sorrentino abbia scientemente destrutturato i topos delle sue origini (Napoli, San Gennaro, la Camorra) come anche un certo modo di intendere la personalità di un regista (l’antropologia, il fanciullino curioso ma limitato dalle circostanze) per esprimere il suo disagio di fronte ai sessant’anni che incombono. E, guarda caso, lo fa attraverso una bellezza da smontare e non con un edonismo maschile immaginario (visto che non è propriamente bello); sono tutte speculazioni che lascio a chi si diverte a fare critica criptica.
Quello che trovo allucinante è che la critica abbia deciso che il film deve piacere. Un film pretenzioso e maschilista che è costato 33 milioni di euro e ne ha intascati solo 9
05 febbraio 2025
VERMIGLIO, una recensione
Sintetizzato frettolosamente come una sorta di Albero degli zoccoli del secondo millennio, questo Vermiglio è un film dignitoso, senza pretese, con alcuni spunti interessanti, con un sapore di fondo che ha l'enorme pregio di non essere "politico", "propedeutico", "militante", "civile"... insomma, tutte quelle definizioni noiose che purtroppo si accompagnano sempre a film come questo.
La storia è molto asciutta, quasi ovvia, non pretenziosa. Però, una volta entrati nel ritmo lento ma non faticoso della narrazione, diventa gradevole assaporare la quotidianità semplice e rituale della gente del Trentino più recondito, assediata alla lontana da un periodo storico tra i più difficili vissuti dall'Italia appena unificata: la fine della Seconda Guerra Mondiale.
Per fortuna, la regista ha evitato ogni allusione alla brutalità dei fascisti ormai sconfitti, tanto che sembra di essere in una bolla nostalgica, in cui le cose brutte sono alluse solo dai dialoghi tra gli adulti e dalla figura del giovane "disertore" che sedurrà una ragazza del posto senza dirle che in Sicilia lo aspetta la moglie.
Recitazione spontanea, mai costruita, con giovani e giovanissimi attori che quasi giocano con la professionalità, senza mai scimmiottare gli attori famosi. Segno dei tempi, sicuramente, visto che tutti più o meno inconsapevolmente siamo circondati da media di ogni possibile tipo, cui attingere modalità espressive o tutorial recitativi. L'unico professionista di fatto è Tommaso Ragno, serio e composto attore di stampo teatrale, che tiene bene le redini del gruppo e che opera come deus ex machina anche nella narrazione (è il maestro, nonché prolifico genitore).
Per restare nella sintassi della drammaturgia greca, ho trovato leggermente insistito il coro rappresentato dai bambini, cui la regista scientemente affida le nostalgie della propria infanzia: a volte stucchevole, a volte insistito, ai limiti dell'accettabile.
La regia è impalpabile. Il che è un pregio, perché lascia che sia la trama a dipanarsi. Per alcuni critici è un punto debole. Per me, invece, è quasi necessaria, proprio perché non deve essere militante e autoreferenziale. Spero solo che non si ripeta, questo sì: Maura Delpero dovrà dimenticarsi di questo film e della sua infanzia; altrimenti, diventerà ripetitiva e anonima.
Direzione della fotografia. Molto scolastica nelle inquadrature: camera quasi sempre fissa; campi totali con effetto pastello; interni quasi onirici; uso frequente della sezione aurea oppure di composizioni centrali sempre suggestive. Per le luci: gli esterni aiutano di loro (una meraviglia); per gli interni, ogni tanto intravediamo flare inutili oppure luci dinamiche troppo nitide, apparentemente artificiali.
Se dovessi pensare a un voto, più di 6 non riesco a darlo. Voglio dire che non mi sono né appassionato né sorpreso; due tra i parametri fissi con cui valuto il mio approccio ai film. Sicuramente, pesa l'averlo visto in casa, ma è un dettaglio comunque marginale. Insomma, è un buon film, ma che nulla toglie o nulla aggiunge alla Storia del Cinema Italiano. Certo, ha l'enorme pregio di non essere supponente, di non giocare a sembrare autoriale; però non è che lo consiglierei così visceralmente.
31 dicembre 2024
SONNY BOY. UN’AUTOBIOGRAFIA di Al Pacino (La Nave di Teseo)
23 dicembre 2024
REMAIN IN LOVE di Chris Frantz (HarperCollins)
Io e Tina abbiamo vissuto insieme tante belle avventure e di questo sarò sempre grato. Quando la gente dice: «È ora di andare avanti», io non sono d'accordo. Quando si parla della mia famiglia, dei miei amici e della mia band, non sono una persona che "va avanti". Io rimango, e resto innamorato
19 dicembre 2024
TONY, EFFE COME FARSA
16 dicembre 2024
IL CRISTO VIRTUALE: UN INCUBO DIVENTATO REALTÀ
Prima di diventare il papà di Star Wars, George Lucas iniziò la sua carriera con un film autoriale, che il bambino che ero soprannominò “Ritratto di donna pelata” (citavo questo sceneggiato).
Stiamo parlando di THX 1138 (1971), tradotto in italiano con L’uomo che fuggì dal futuro.
È un capolavoro di rara bellezza, ambientato in una distopia peggiore di “1984”, dove le persone non hanno nome, se non codici alfanumerici (da qui il titolo); per rendere il tutto più ansiogeno, sono costrette a vivere calve, a vestire in un anonimo bianco, a lavori automatici e ripetitivi. Private di identità, sessualità, diritti, vivono nell’alienazione totale, senza respiro, senza speranza, senza passato o presente o futuro.
Stranamente, persiste una parvenza di conforto spirituale: un confessionale trasparente che consente di rivolgersi ad un Gesù digitale, ripetitivo e algido (guardate qui).
Una follia del genere non potrebbe mai accadere nella realtà… tranne che a Lucerna, dove l'installazione Deus in Machina permette di confessarsi con un Gesù virtuale
13 dicembre 2024
LA VITA SEGRETA DELLE API di Marco Valsesia (Longanesi)
Non soltanto la Natura seleziona le migliori api, quelle che sanno resistere alle malattie e che riescono a produrre più miele.Al giorno d'oggi, la Natura seleziona anche gli apicoltori, perché sempre meno persone decidono di proseguire il loro cammino in mezzo a tutte queste tempeste
12 dicembre 2024
400 GIORNI INTORNO AL MONDO di Ambrogio Fogar (TEA)
La storia di queste pagine non è la descrizione di un viaggio, ma di me nel viaggio. È la narrazione di vita quotidiana, piccoli avvenimenti, piccole cose. Non ci sono lezioni per il mondo o rivelazioni per scuotere gli uomini. È piena di cose banali, a volte anche noiose: ma parto affezionato alla mia barca per l'ampio respiro degli spazi aperti, per il gusto del vento impetuoso, la luce del sole, la speranza di tornare, se non migliore, almeno più utile
[...]
Tornerò avendo vissuto in un anno molte vite spirituali, non risparmiando mai le forze: spero solo, e con tutto il cuore, di ritornare vittorioso su me stesso, all'alba del mio nuovo mondo
11 dicembre 2024
IL CASO CAFFO, OVVERO "IL PRONTO SOCCORSO DELLE CONVENTICOLE"
Quanto scritto in calce è apparso a chiusura di un recente numero della mia rassegna stampa prima della sentenza contro Leonardo Caffo, il "filosofo" accusato dalla sua ex compagna di maltrattamenti. Non cambierei una virgola, anzi: la boria con cui l'imputato ha reagito alla sentenza dimostra quanto lavoro ci sia ancora da fare, non solo tra noi maschietti, ma dentro le Conventicole, sempre più lontane dalla realtà, sempre più arroganti e (per esperienza diretta) poco educate.
A questa premessa aggiungo le fresche dichiarazioni della ex compagna del "filosofo" (successive quindi alla sentenza), mai consultata prima da nessun garantista, con la scusa che si doveva rispettarne l'anonimato, anche perché il dramma coinvolge anche la loro figlioletta. Una scusa infantile facilmente risolvibile, ulteriore prova di un'ipocrisia imbarazzante che si aggiunge alle altre ipocrisie di questa generazione di "intellettuali", che fa veramente male alla cultura, non solo italiana.
«Questa sentenza conferma una verità che per quasi due anni ho cercato di far emergere, affrontando innumerevoli difficoltà, sia sul piano personale e legale che mediatico. Queste difficoltà non sono un caso isolato, chiunque denuncia una situazione simile si scontra con un sistema che troppo spesso manca di strumenti adeguati per supportare le vittime.
Le vittime di violenza continuano a pagare il prezzo di una profonda carenza nell’educazione sentimentale e di una cultura ancora permeata di pregiudizi. È fondamentale che questa vicenda serva da spunto per riflettere su quanto ci sia ancora da fare per prevenire e contrastare realmente le violenze»
-------
La scelta di Chiara Valerio di invitare Leonardo Caffo a partecipare all’imminente edizione di Più Libri Più Liberi dedicata alla memoria di tutte le Giulia Cecchettin, appartiene a quella mentalità tipica della “sinistra ZTL” di esprimersi soprattutto con provocazioni, troncando sul nascere ogni possibile obiezione, perché, in questo caso, surrettiziamente contraria al garantismo tout court.
Che poi il “filosofo” Caffo abbia rinunciato dopo la messe cospicua di polemiche, conta poco. Il danno ormai fatto non scaturisce dalla scelta della sua figura, rinchiusa dentro una denuncia atroce. Il danno nasce dalla mentalità che scatena situazioni simili: un modo supponente di imporre una propria versione della coerenza, una “mentalità pappappero” che detiene l’unica verità sulla libertà di pensiero.
Ma l’elemento che innervosirebbe persino Giobbe è la protervia: se fai notare che scelte del genere sono infantili e intellettualmente scorrette, vieni schifato con sguardo triglioso e poi magari redarguito col ditino dai componenti il “soccorso conventicole”: armati di media pervasivi, si dimostrano ancor più lontani dalla realtà (vedi Zoro e Linkiesta).
Se poi evidenzi che anche sul piano della mera comunicazione, certe scelte bimbesche sono facilmente strumentalizzabili, ecco che urlano che a loro della comunicazione interessa nulla: le regole della comunicazione, si sa, sono un portato del marketing e quindi del capitalismo e quindi degli americani cattivi cattivi.
Naturale, quindi, che venga spontaneo riferirmi anche a Michela Murgia, per una sua dichiarazione del 2021 che dimostra quanto sto scrivendo. Ricordo quanto fosse fiera di pensarla come Hamas, fregandosene delle conseguenze di un’apologia così ignobile, soprattutto tra chi non sa fare esercizio di critica. Tant’è che l’antisemitismo italico tutt’altro che dissimulato si è fatto scudo anche di queste sue farneticazioni. Addirittura, nessun movimento femminista si è speso pubblicamente per le ragazze uccise e rapite e stuprate il 7 ottobre 2023.
Bisogna sempre tenere a mente che questa generazione di fini pensatori concepì anche iMille, un laboratorio per una nuova sinistra che emanò il renzismo prima di Renzi stesso. Anche qui, alcuni componenti perseguirono la “mentalità pappappero” quando scelsero che titolo dare al primo convegno (2008): “Uccidere il padre”. Al di là della sciagurata scelta lessicale, sottolineo che tra i solerti partecipanti ci fu anche il figlio di un condannato in via definitiva come mandante dell’omicidio di un padre (nonché servitore dello Stato): un minimo di prudente sensibilità sarebbe stata più che doverosa.
Sono esempi sparsi di un’attitudine ben precisa, trasmessa scientemente da una generazione all’altra. Attitudine che mai in questi decenni è cambiata, perlomeno nella sostanza.
A destra non sono così. Non hanno bisogno del pensiero per agire: agiscono, e basta. Visti i risultati delle elezioni di mezzo mondo, piacciono a molti