31 agosto 2020

LA ROVINA DI KASCH di Roberto Calasso (Adelphi)

Primo testo di un'opera complessiva di undici volumi (perlomeno a tutt'oggi), questo incredibile e sovversivo saggio/racconto/questionario di Roberto Calasso entra ed esce dalle stanze della Ragione per avventarsi come una fiera sulla testa del Dubbio e per tirare secchi d'acqua arrugginita contro ogni parvenza di armonia intellettuale dalle menti del lettore più coraggioso.
Non è un libro "facile" né tantomeno "accessibile", e sotto molti aspetti ricorda il postulato iniziale dei libri contenuti nella proverbiale biblioteca di Borges, dove ogni pagina contiene altre pagine che contengono altre pagine che contengono altre pagine, lasciandoti fermo su più punti di ogni singola riga alla ricerca di una visione d'insieme che visione lo è, ma di un insieme che rotola altrove, proprio quando credi di averlo raggiunto.
Vi suggerisco di leggere prima il capitolo che porta il titolo del libro, da pagina 148 a pagina 157. Dopodiché, iniziate dall'inizio. Il punto di partenza non è tanto la responsabilità storica dell'abile Talleyrand, ma la sua figura di testimone di un cambio così radicale di un'epoca così rivoluzionaria qual è stata appunto la Rivoluzione Francese. 
Mi sembra che Calasso indichi in quel decennio violento e spumeggiante la responsabilità inconsapevole di aver aperto la porta a una modernità (l'innominabile attuale, insomma) che non sa gestire la parte più ancestrale (e forse più nobile) dell'essere umano: "digitalità è pura sequenza di segni: quando il suo dominio si è esteso a tutto, non sappiamo più quale terra ci sostiene - se una terra c'è ancora".
Lo so, è una frase di John von Neumann, ma tutto questo volume è intriso di citazioni e riferimenti. La sardonica sapienza di Calasso sta nell'utilizzarli a sostegno delle sue tesi o comunque come bastone di appoggio per questo viaggio verso la coscienza di Adelphi. Ecco, Calasso di/mostra cosa intenda lui un testo adelphiano... scrivendolo in prima persona.
Anche la sola analisi della "legittimità" di un sovrano, o la fine di essa, meriterebbero attente letture ad alta voce di quelle asciutte ma saporite pagine che cercano di sviscerarla e di... legittimarla.
O l'idea che il gusto sia un forma di presunzione democratica e piatta, sembra forse audace, ma alla fine più sensata di quanto non sembri. "Il gusto appare per ereditare - che cosa? Difficile dirlo. Ma certamente in tutte le civiltà sognate dai reazionari il gusto non esisteva. Il significato bastava a reprimerlo. E bisogna che il significato oscilli sulle sue fondamenta perché il gusto compaia".
Lungo poi è il girare intorno e dentro il concetto di sacrificio, e quindi di rito, e forse di evoluzione umana ma involuzione del rapporto con la ritmica ripetizione delle esigenze dell'anima. "La legge può essere osservata da un soggetto unico. Il sacrificio esige il concetto duale".
Utile e da rileggere l'intera glossa dedicata a Marx, dove la struttura del suo pensiero è conferma della fine di una certa umanità, piuttosto che l'inizio di quella rivoluzionaria. Calasso sembra quasi pensare che se fosse stato veramente compreso, forse non avremmo mai avuto il Comunismo o comunque l'idea di appiattimento tra consimili tipico delle falsità democratiche insite del Manifesto stesso.
E come non dimenticare il torto ontologico della riproducibilità oppure l'individualismo sfibrante di Stirner, che farebbe impallidire persino i giovinastri social-izzati di oggi?
Credo che questa Rovina sia una sorta di summa e di premessa delle opere successive. Certo è che mi ha aperto al dubbio più di ogni altro testo letto in questi ultimi lustri.

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