11 febbraio 2021

LA TAVOLETTA DEI DESTINI di Roberto Calasso (Adelphi)

Ultimo pannello dell'endecaopera di Roberto Calasso, questo breve quasi-romanzo ha almeno tre caratteristiche che lo differenziamo radicalmente da tutte le opere precedenti: è totalmente privo di bibliografia; ha i tempi narrativi apparentemente in progress; non risente di alcuna digressione. La domanda che viene spontanea è: perché?
Non essendo nella testa dell'autore, e non amando le speculazioni, posso solo pensare che la trama possa aiutarci in qualche modo. 
Che poi, parlare di "trama" non è del tutto appropriato. 
In realtà, infatti, è il racconto dell'incontro tra due figure mitiche e mistiche decisamente distanti tra loro, sia sul piano culturale che su quello gnoseologico: Utnapishtim e Sindbad; il salvatore degli uomini (e quindi premiato con l'Eternità e un'isola tutta per sé) e il primo esploratore.
Ma anche un uomo di acqua dolce e un giovane di acqua salata: «Sei venuto dal mare, Sindbad, non dalla laguna. Sei incrostato di acqua salmastra. Io vivo nel punto dove sgorgano le acque dolci del profondo e si uniscono alla confluenza dei fiumi. Parliamo due lingue di ceppo diverso, ma entrambi veneriamo ciò che è liquido. Tu hai viaggiato per giungere qui, senza saperlo. Io ti ho sempre aspettato».
Un incontro in cui, come da tradizione orientale, si dipana un racconto di racconti, a loro volta figli di altri racconti, di origine incerta, poco chiari nella forma e nella sostanza.
Il vero protagonista è sicuramente Utnapishtim, padre e figlio di una quantità incommensurabile di storie, che esordisce raccontando le differenti anime dei primissimi dèi: «non erano tutti uguali. C'erano dèi superiori e dèi inferiori. Quelli superiori si erano ritirati in cielo: avevano lasciato quelli inferiori a penare sulla Terra. Era inevitabile che un giorno si rivoltassero. Gli uomini avrebbero imparato da loro». Un po' come possiamo leggere in Cadmo e Armonia, mi sembra.
Questo comportamento contraddittorio (quasi sprezzante) con gli uomini, inevitabilmente avrà libero sfogo nel Diluvio. In un primo momento, gli dèi vogliono liberarsi totalmente degli uomini, ma poi grazie a una serie di complicate eccezioni, tipiche di queste leggende così lontane, all'ultimo momento uno di loro dispone che proprio il nostro oratore potrà costruire un'arca per salvare se stesso e gli animali.
Quello che è più evidente, quasi costante nel libro, è che tra gli dèi sussistano contraddizioni e differenze di ogni tipo: la più interessante riguarda la figura di Ishtar, un prototipo di donna cui viene concesso ogni possibile affronto nei confronti degli stessi dèi, e ogni possibile confronto con gli uomini. 
Ishtar sa come esprimere la sua forza; forza che in parte le viene dal possesso delle regole (affini a quelle di cui si parla ne L'ardore); regole che seguono il flusso di una serie di narrazioni che si intreccia e i infittisce. 
Ishtar, insomma, è donna e dea e anche involontaria demiurgo di un modo di concepire il potere divino così potente e arrogante da non temere la Morte.
Ma qui commette il suo errore, perché proprio nel provare a discendere negli Inferi perché crede di poterne uscire incolume, subirà una condizione di perenne sospensione, dissimile dalla morte ma non certo vicina alla vita.
In una delle sue rare narrazioni, Sindbad risponde raccontando una delle origini del Cacciatore celeste; non certo quella raccontata da Calasso nell'omonimo testo, ma una precedente ad essa, più violenta e tutt'altro che romantica; storia che comunque sposta l'idea di morte verso una condizione astrale, in cui ci si trasforma in altro piuttosto che disvanire del tutto.
Inevitabile, quindi, pensare a figure che riescano a conciliare il vivere terreno con le contraddizioni degli dèi. E qui scorgiamo Gilgamesh, l'unico che oltre a Sindbad ha incontrato Utnapishtim. 
La figura di questo protoeroe è tra le più affascinanti che conosca, perché porta già in sé tutti gli archetipi sia degli eroi a venire che di una serie di punti fermi che incontriamo spesso, anche nelle narrazioni meno complesse: forza, etica, verginità, devozione alla Natura, rispetto dell'onore, amore per gli esseri umani.
Altra figura costante, in parte accennata all'inizio di questa recensione, è l'acqua, qui narrata tramite figure di dèi complesse e affascinanti.
Ma cosa rappresenta la tavoletta del titolo? L'ordine. «Finché era custodita dagli dèi superiori, si sapeva come celebrare i riti e attuare la legge. Se non era presente, tutto si dissestava [...] Comunque era qualcosa di esterno a loro, un talismano da tenere appeso al petto. Quindi qualcosa che si può smarrire da un momento all'altro. E allora anche i supremi tra gli dèi superiori precipitavano nel non sapere [...] Gli dèi superiori non erano l'ordine. E neppure avevano elaborato l'ordine».
La Tavoletta dei destini, insomma, «concentrava in un minimo spazio orizzontale l'asse che attraversava il cielo».
E come vivevano gli dèi superiori quando ancora non possedevano tale Tavoletta? «Non dominavano l'ordine. L'ordine li precedeva, li sovrastava. Erano dèi, ma non compiutamente sovrani». Come in Ka, insomma.
E perché "dei destini"? «La necessità non significa. Il destino significa. I destini sono un ordine che significa e si sovrappone alla necessità, punto per punto, passo per passo».
Siamo di fronte, insomma, a un libro che ricuce alcune speculazioni contenute in alcuni dei saggi nodali precedenti. Come in un cerchio magico, viene da pensare, dove gli dèi «che hai incontrato e che incontrerai, ovunque, di là da tutti i mari, sono fatti della stessa sostanza. C'è una grande matassa lucente che rotola e continuamente si lascia dietro qualche pezzo. E quei pezzi sono altre matasse lucenti, che continuano a rotolare e a loro volta si lasciano dietro altre più piccole matasse lucenti». 
E gli uomini, anzi Utnapishtim, anzi Calasso, non conoscono risposte: si sono disabituati a chiedere risposte, perché il mondo non è fatto per dare risposte.


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