29 novembre 2020

L'ARDORE di Roberto Calasso (Adelphi)

Mirabile quanto ricco di pagine pastose, questo è il settimo pannello dell'opera eterogenea di Roberto Calasso, tutt'ora in corso (al momento conta undici titoli). 
E rappresenta forse il perno delle tesi di partenza presentate nel primo pannello, Le rovine di Kasch. Scrivo "forse", perché è una mia interpretazione; poi, magari, Calasso non sarà d'accordo.
Certo è che siamo di fronte a un libro molto complesso, spesso intriso di una sapienza rara e conturbante, tanto che a volte sembra quasi anti-etico andare avanti nella lettura anche se non si è capito "tutto" fino in fondo. Ma con questo libro bisogna fare così, altrimenti non si finirà mai di leggerlo: bisogna, cioè, lasciarsi cullare da certe descrizioni, da certe idee, da certe indicazioni, piuttosto che provare a comprenderle tutte, immediatamente, fino alla radice.
Del resto, l'uso di parole occidentali (quindi "non-vediche") per approfondire il pensiero vedico è già un problema, per chi scrive e anche per chi legge; figuriamoci poi a recensire un saggio che affronta anche questo dilemma. Lo sappiamo, per ogni singola cultura certi significati hanno un sottotesto ancestrale così potente e irripetibile, che inevitabilmente ci fanno ragionare dentro al solo nostro modo di intendere quel significato. 
Ed è, in un certo senso, anche il monito di Calasso, quando verso la fine del saggio scrive: "L'immanifesto è molto più vasto del manifesto. L'invisibile del visibile. Così anche per il linguaggio. Noi tutti dobbiamo sapere, quando parliamo, che del linguaggio «tre parti, depositate nel segreto, sono immobili; la quarta parte è quella che usano gli uomini». Soltanto perché la lingua proietta un'ombra ben più vasta di sé e inaccessibile la parola conserva e rinnova un tale incanto".
Dunque, si parla dell'India dei Veda, di trattati, inni e formule, scritti l'ottavo secolo prima di Cristo, in cui incontriamo anche archetipi ed echi che saranno anche tra i nodi fondanti dell'agire proprio e anche di Gesù. Più volte, infatti, nei miei appunti e sottolineature, ho evidenziato qualche impercettibile rimando a momenti del Vangelo. Del resto, non solo la vulgata comune - ma anche esperti di varie discipline, concordano sul fatto che lo stesso Gesù abbia frequentato - se non almeno conosciuto - le immensità delle culture asiatiche.
Quello che fa impressione è che la cultura vedica non abbia prodotto "cose" ma "idee", idee potenti. E tra queste, quella dell'uomo appare misera e fragile, frantumata e disgregabile di fronte alla potenza degli dèi e degli animali. Un uomo che attraverso il sacrificio riassesta un equilibrio che da precario può diventare solo instabile, e che non conosce altro che questo meccanismo costante e continuo: "L'uomo è l'unico essere che rifletta sull'uccisione [...] L'uomo è l'unica fra le vittime sacrificali che celebri anche sacrifici". Insomma, "L'uomo nasce in quanto persona con un debito dovuto alla morte: quando offre sacrifici riscatta la sua persona dalla morte". E di conseguenza: "Il sacrificio è l'atto con cui il male viene condotto alla coscienza". 
Questo L'ardore, insomma, indica nel distacco dell'uomo dalla sua essenza animalesca come il principio della fine, che proprio la techne - la tecnologia nel senso più ampio del termine - ha di fatto determinato. Ma oltre alla techne, per distaccarsi dal suo essere animale, l'uomo insegue la mimesi, imitando appunto l'animale stesso. 
Contemporaneamente, proprio l'essenza umana consiste anche nel porsi delle domande, l'uomo insegue (e delinea) la conoscenza. Conoscenza che, solo se viene praticata in relazione agli dèi, può portare all'ardore: "Per sapere bisogna ardere. Altrimenti ogni conoscenza è inefficace. Perciò bisogna praticare l'ardore. E il Sole è l'essere che più di ogni altro arde. A lui è necessario rivolgersi, per attingere la dottrina".
Come abbiamo visto, quindi, il punto di partenza è la presenza-non-presenza degli dèi vedici. Era stata già delineata in Ka ("chi", inteso come domanda eternamente senza risposta): gli dèi esistono nel momento in cui si chiedono essi stessi "chi" siano. Forse questo passaggio aiuta ad avere idee più precise a riguardo: "Il visibile agisca sull'invisibile e, soprattutto, che l'invisibile agisca sul visibile. Che il regno della mente e il regno di ciò che è palpabile comunichino continuamente".
L'altro convitato di pietra è un personaggio notoriamente molto amato da Calasso: Nietzsche. Lo si percepisce in maniera eclatante in passaggi come questo: "La vita è un bene che la morte ha lasciato a ogni uomo in deposito. Bene di cui la morte chiederà la restituzione, facendo rientrare l'uomo nella morte".
Le ultime 40/50 pagine possono essere lette per prime. E non è la prima volta che riscontro questa sensazione nei libri di Calasso; è come su chiudendo il cerchio del saggio, ritornasse al punto di partenza, consapevole che il lettore abbia "imparato" qualcosa di nuovo e quindi possa "rileggere" il punto di partenza con un'altra attitudine. 
Di queste pagine finali, mi ha colpito soprattutto questo passaggio; sembra quasi una premessa a L'innominabile attuale: "Ben poco di religioso, in senso stretto e severo, sussiste al mondo. E non tanto nei singoli, quanto nelle strutture collettive. Che si tratti di chiese, sette, tribù, etnie, il loro modello è un informe super-partito, che permetta di fare quanto e più di ciò che l'idea di partito già permetteva, in nome di qualcosa che veniva definito come identità. È la vendetta della secolarità. Dopo aver vissuto per centinaia e migliaia di anni in una condizione di sudditanza, come ancella di poteri che si imponevano senza giustificarsi, ora la secolarità - beffardamente - offre a tutto ciò che ancora nomina il sacro le modalità per agire nel modo più efficace, più aggiornato, più micidiale, più adatto ai tempi. È questo l'orrore nuovo che doveva ancora cristallizzarsi: tutto il secolo ventesimo ne è stato il lungo periodo di incubazione.
Perché si possa parlare di qualcosa di religioso occorre che si stabilisca un qualche rapporto con l'invisibile. Occorre che vi sia il riconoscimento di potenze situate al di là e al di fuori dell'ordine sociale. Occorre che l'ordine sociale stesso miri a stabilire un qualche rapporto con quell'invisibile".
Questo di Calasso, insomma, è un testo che prova disperatamente a presentare una cultura che non può essere compresa fino in fondo, ma solo perché la nostra ha graniticamente alterato l'idea stessa della percezione del reale e dell'invisibile. 
E non sono certi i riti tout court a poter restituire una visione del mondo ormai dimenticata: "L'incompatibilità tra le due visioni è totale. E incommensurabile è la disparità tra le forze: da una parte una concatenazione di procedure che è giunta per la prima volta a coprire, con una impercettibile maglia digitale, la totalità del pianeta; dall'altra un grumo di testi, in parte accessibili soltanto in una lingua morta e perfetta, che parlano di gesti e di entità che non sembrano avere più alcuna rilevanza". 
Ecco, forse leggendo questo libro si tiene viva una testimonianza, si mantiene viva una benché flebile fiamma, di una cultura decisamente all'avanguardia rispetto ai secoli in cui ha prosperato.

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